Dettaglio Legge Regionale

Disciplina per il riutilizzo di locali accessori, di pertinenza di fabbricati e di immobili non utilizzati. (24-12-2019)
Liguria
Legge n.30 del 24-12-2019
n.19 del 31-12-2019
Politiche infrastrutturali
25-2-2020 / Impugnata
La legge regionale, che reca una “Disciplina per il riutilizzo di locali accessori, di pertinenza di fabbricati e di immobili non utilizzati”, è censurabile relativamente alle disposizioni contenute negli articoli 2, comma 1 , 3, comm1 e 2 1, 4, commi 1, 2 e 3, che, per i motivi di seguito specificati, violano : l’articolo 9 e l’articolo 117, secondo comma lettera s) della Costituzione, sotto il profilo della tutela dei beni culturali e del Paesaggio, l’articolo 32 della Costituzione sotto il profilo della tutela della salute, l’articolo 117, terzo comma della Costituzione, per violazione di principi fondamentali nelle materie della tutela della salute e del governo del territorio, nonché l’articolo 3, sotto il profilo della ragionevolezza.
In particolare:

A) In relazione alla tutela paesaggistica, risultano censurabigli articoli 3, comma 1 e 4 .
La disciplina dettata da tali norme infatti, incentiva in maniera generalizzata gli interventi su una pluralità di fabbricati, anche vetusti, disseminati su tutto il territorio regionale al fine del loro riutilizzo per gli scopi più diversi (turistico, residenziale, commerciale etc), anche in deroga agli strumenti urbanistici e al PTCP regionale. Oggetto della legge sono, quindi, anche gli immobili di interesse culturale e paesaggistico, sottoposti a tutela ai sensi della Parte II e della Parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
Non è infatti prevista alcuna eccezione in favore di tali beni agli articoli 3 o 4 della stessa legge, ove si prevedono, rispettivamente, le deroghe e gli ambiti di esclusione e, in tale ultimo caso, si demanda, peraltro, esclusivamente al Consiglio comunale la possibilità di stabilire alcune limitate eccezioni all’indiscriminata applicazione su tutto il territorio regionale della disciplina introdotta.
Conseguentemente, la legge regionale invade la competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione – rispetto al quale le previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio costituiscono norme interposte – e si pone anche in contrasto con il principio fondamentale della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione di cui all’articolo 9 della Costituzione.

Con specifico riferimento alla tutela dei beni culturali, si osserva che, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge regionale in esame, la disciplina introdotta dalla Regione è finalizzata al “riutilizzo per l’uso residenziale, turistico-ricettivo, produttivo, commerciale, rurale e per servizi, di locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, nonché di immobili, anche diruti, (…) non utilizzati da almeno cinque anni”.
Il riutilizzo è consentito anche in deroga ai vigenti strumenti urbanistici (art. 3, comma 1) e non è prevista alcuna eccezione in relazione ai beni sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del Codice di settore. Conseguentemente, la legge incide direttamente sul regime di tali beni, in quanto incentiva gli interventi di modifica di immobili potenzialmente, per la loro vetustà, di interesse culturale.
Al riguardo, deve tenersi presente che, ai sensi dell’articolo 20, comma 1, del Codice di settore “I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. Anche la modifica della destinazione d’uso di tali beni – incentivata indiscriminatamente dalla legge regionale in esame – presenta pertanto una diretta rilevanza ai fini della tutela. In ogni caso, è del tutto estranea alle attribuzioni regionali la disciplina delle possibilità di “riutilizzo” di beni culturali sottoposti a tutela, essendo tale disciplina rimessa esclusivamente allo Stato.
Sulla questione, si richiamano i costanti orientamenti della Corte costituzionale, la quale ha posto una precisa linea di distinzione tra le competenze legislative statali e regionali, riservando allo Stato la competenza tutte le volte in cui oggetto della disciplina sia un bene tutelato, anche avendo riguardo al “supporto materiale” inciso dalla normativa. In particolare, già con la sentenza n. 9 del 2004 la Corte ha evidenziato come rientri tra le attività costituenti tutela, riservata in via esclusiva allo Stato, quella diretta “a conservare i beni culturali e ambientali”, ossia volta “principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale”.
Non spetta, pertanto, alla Regione dettare una disciplina volta a incentivare il “riutilizzo”, anche con cambio di destinazione d’uso, di immobili sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Da ciò discende l’illegittimità della legge regionale in esame nella parte in cui, all’articolo 3, nel disciplinare le deroghe, mantiene salva solo una parte del PTRC regionale, senza prevedere un’analoga clausola di salvaguardia a favore del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e all’articolo 4, demanda unicamente ai Comuni, nei casi ivi indicati, la limitazione dell’ambito di applicazione della disciplina introdotta dalla stessa legge, senza parimenti escludere dall’ambito applicativo della legge i beni sottoposti a tutela ai sensi della Parte II dei beni culturali e del paesaggio.
In particolare, le suddette disposizioni si pongono in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali, di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte le disposizioni della Parte II del Codice di settore, e in particolare gli articoli 20 e 21, in tema di interventi sui beni culturali.
È, inoltre, violato l’articolo 9 della Costituzione, in considerazione del potenziale pregiudizio ai beni tutelati derivante dagli interventi incentivati dalla legge regionale.

Con riferimento al paesaggio, la disciplina introdotta dalla legge regionale in esame, destinata a consentire in modo indiscriminato, in relazione all’intero territorio regionale, il “riutilizzo” di immobili, anche sottoposti a vincolo paesaggistico, comporta il sostanziale svuotamento della funzione propria del piano paesaggistico.
Nel disegno delineato dagli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio spetta infatti a quest’ultimo strumento di dettare, per ciascuna area tutelata, le cd. prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e di stabilire la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
La disciplina introdotta dalla legge regionale impugnata avrebbe, perciò, dovuto prevedere la propria applicazione, in relazione ai beni paesaggistici, esclusivamente nei casi e con le modalità previamente determinati dal piano paesaggistico in corso di elaborazione congiunta con il Ministero per i beni le attività culturali o eventualmente fissati d’intesa con quest’ultimo e destinati a confluire nel futuro piano. Ciò allo scopo di evitare che, in sede di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, le singole trasformazioni vengano valutate in modo parcellizzato, e non nell’ambito della considerazione complessiva del contesto tutelato specificamente demandata al piano paesaggistico, secondo la scelta operata al riguardo dal legislatore nazionale.
La Corte costituzionale ha, infatti, da tempo affermato l’esistenza di un vero e proprio obbligo, costituente un principio inderogabile della legislazione statale, di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, con riferimento ai beni vincolati (Corte cost. n. 86 del 2019) e ha rimarcato che l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica “è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale” (Corte cost., n. 182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009).
Conseguentemente, è da ritenere costituzionalmente illegittimo l’articolo 3 della legge regionale in esame, il quale, nel disciplinare le deroghe e prevedere le clausole di salvaguardia, non prevede analoga clausola in favore del piano paesaggistico o di uno specifico stralcio di esso nonché l’articolo 4 il quale demanda l’eventuale esclusione dell’applicazione della disciplina introdotta dalla stessa legge unicamente ai Comuni, “in relazione a specifiche esigenze di tutela paesaggistica”, e nelle sole fattispecie ivi indicate (ossia “limitatamente al riutilizzo di locali contigui alla strada pubblica” e, in questi casi, unicamente con riferimento al “riutilizzo per l'uso residenziale dei locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati”), senza subordinare l’applicazione della medesima normativa alla previa introduzione di un’apposita disciplina d’uso dei beni paesaggistici tutelati, elaborata d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali , ai sensi degli articoli 135, comma 1, e 143, comma 2, del Codice di settore.
In particolare, la suddetta disposizione si pone in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
È, inoltre, violato l’articolo 9 della Costituzione – il quale pone la tutela del paesaggio quale interesse primario e assoluto (cfr. Corte cost. n. 367 del 2017) – in considerazione del potenziale pregiudizio ai beni tutelati derivante dagli interventi incentivati dalla legge regionale.

B. In relazione alla violazione di principi fondamentali in materia di governo del territorio nonché di tutela della salute si evidenzia .
B.1 l’articolo 2, comma 1 prevede che:
“1. Il riutilizzo per gli usi di cui all'articolo 1, comma 1, dei locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, può essere realizzato attraverso interventi sino alla ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del D.P.R. 380/2001 e successive modificazioni e integrazioni. L'intervento consistente nel mero mutamento di destinazione d'uso senza opere è soggetto alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi dell'articolo 13-bis della L.R. 16/2008 e successive modificazioni e integrazioni.”.
L’articolo 13-bis “Disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso senza opere” della L.R. 16/2008, citato nella richiamata disposizione stabilisce che:
“1. I mutamenti di destinazione d'uso di cui all'articolo 13 non comportanti opere edilizie sono soggetti a presentazione di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi dell'articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e successive modificazioni e integrazioni.”.
Al riguardo, occorre segnalare che nella sentenza del TAR Campania, Sez. III, n. 42 del 2020, si afferma che “In giurisprudenza si ritiene che <> (T.A.R. Genova, (Liguria) sez. I, 26/07/2017, n.682). Anche la Cassazione penale ha stabilito che per il mutamento di destinazione d'uso da cantina ad abitazione è necessario il permesso di costruire: << In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale >> (Cassazione penale sez. III, 05/04/2016, n. 26455).”.
Si evidenzia che la distinzione tra SCIA e SCIA alternativa al permesso di costruire emerge con ogni evidenza, se si considera che:
- l’articolo 23 “Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire” del TUE (Testo Unico dell’Edilizia, DPR n. 380 del 2001) disegna un procedimento “aggravato”, in ragione della rilevanza del titolo, e lasciando inalterato il precedente regime procedimentale relativo alla DIA, prevede, nei casi di SCIA alternativa al permesso di costruire, tra l’altro, l’obbligo, per il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo, di presentare la segnalazione certificata di inizio attività almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori;
- l’articolo 22 “Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività” del TUE fa rinvio alla SCIA di cui all’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, ossia alla disciplina generale concernente la SCIA stessa, in base alla quale l’attività oggetto della medesima può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente.
Alla luce delle considerazioni che precedono e dei richiamati, dirimenti, orientamenti giurisprudenziali, la disposizione regionale in esame, assoggettando gli interventi previsti a SCIA, si pone in contrasto con il combinato disposto degli articoli 10, comma 1, lettera c), 23, comma 01, lett. a) e 22, comma 1, lett. c), in base al quale per la tipologia di interventi quali quelli di specie, è previsto il permesso di costruire o la SCIA alternativa al permesso di costruire. Ciò, in violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., “governo del territorio”.

B.2.L’articolo 3, al comma 1 prevede che:
“1. Il riutilizzo per gli usi di cui all'articolo 1, comma 1, di locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, nonché di immobili non utilizzati, anche diruti, è ammesso in deroga alla disciplina dei vigenti strumenti e piani urbanistici comunali, nonché alla disciplina del vigente Piano territoriale di coordinamento paesistico regionale, approvato ai sensi della legge regionale 22 agosto 1984, n. 39 (Disciplina dei piani territoriali di coordinamento) e successive modificazioni e integrazioni. Resta comunque ferma e non derogabile la disciplina dell'Assetto Insediativo di Livello Locale del Piano territoriale di coordinamento paesistico regionale relativamente ai regimi normativi "PU" (parchi urbani) e "ANI-CE" (aree non insediate - conservazione).”.
Al riguardo, con specifico riferimento alla possibilità di riutilizzo per gli usi di cui all'articolo 1, comma 1, di locali accessori e di pertinenze di un fabbricato, anche collocati in piani seminterrati, nonché di immobili non utilizzati, anche diruti, in deroga alla disciplina dei vigenti strumenti e piani urbanistici comunali, si rileva un contrasto con il parametro interposto di cui all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, e, di conseguenza, una violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., “governo del territorio”.
Infatti, tale articolo 14 del TUE, recita testualmente:
“1. Il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, e delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia.
1-bis. Per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d'uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d'uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall'articolo 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni.
2. Dell'avvio del procedimento viene data comunicazione agli interessati ai sensi dell'articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
3. La deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis, le destinazioni d'uso, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444.”.
I medesimi rilievi si intendono riferiti anche all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, che rinviano a una delibera del Consiglio comunale soltanto per l’individuazione degli ambiti esclusi dall’applicazione delle norme della legge regionale in oggetto, stabilendo, altresì, che le disposizioni della stessa si applicano senza limitazioni a seguito della infruttuosa decorrenza del termine del 30 aprile 2020 senza che il Comune abbia assunto tale deliberazione.

B.3 L’articolo 3, al comma 2 prevede, tra l’altro, che “L'altezza interna dei locali destinati alla permanenza di persone non può essere inferiore a 2,40 metri. Qualora i locali da recuperare presentino altezze interne diverse tra loro, si considera l'altezza media.”. Al comma 3 del medesimo articolo (che richiama anche il rispetto di quanto indicato al comma 2) si dispone che il rispetto dei parametri di aeroilluminazione e dell'altezza minima interna è assicurato anche con opere edilizie che possono interessare i prospetti del fabbricato o mediante l'installazione di impianti e attrezzature tecnologiche.
Le disposizioni sopra richiamate appaiono porsi in contrasto, in particolare, con il disposto di cui al D.M. 5 luglio 1975 “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione”, il quale: all’articolo 1 stabilisce che:
- l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli (comma 1);
- nei comuni montani al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m. 2,55 (comma 2);
- le altezze minime previste nel primo e secondo comma possono essere derogate entro i limiti già esistenti e documentati per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunità montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie quando l'edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative atte a garantire, comunque, in relazione al numero degli occupanti, idonee condizioni igienico-sanitarie dell'alloggio, ottenibili prevedendo una maggiore superficie dell'alloggio e dei vani abitabili ovvero la possibilità di una adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, dai riscontri d'aria trasversali e dall'impiego di mezzi di ventilazione naturale ausiliaria (comma 3),
e all’articolo 5, prevede che:
“5. Tutti i locali degli alloggi, eccettuati quelli destinati a servizi igienici, disimpegni, corridoi, vani-scala e ripostigli debbono fruire di illuminazione naturale diretta, adeguata alla destinazione d'uso.
Per ciascun locale d'abitazione, l'ampiezza della finestra deve essere proporzionata in modo da assicurare un valore di fattore luce diurna medio non inferiore al 2%, e comunque la superficie finestrata apribile non dovrà essere inferiore a 1/8 della superficie del pavimento.
Per gli edifici compresi nell'edilizia pubblica residenziale occorre assicurare, sulla base di quanto sopra disposto e dei risultati e sperimentazioni razionali, l'adozione di dimensioni unificate di finestre e, quindi, dei relativi infissi.”.
Le disposizioni regionali in questione non appaiono coerenti, inoltre, con la disciplina contenuta nel D.M. 26 giugno 2015 “Applicazione delle metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche e definizione delle prescrizioni e dei requisiti minimi degli edifici”, Allegato 1, punto 2.3 “Prescrizioni”, n. 4, laddove si prevede che “…nel caso di installazione di impianti termici dotati di pannelli radianti a pavimento o a soffitto e nel caso di intervento di isolamento dall’interno, le altezze minime dei locali di abitazione previste al primo e al secondo comma, del decreto ministeriale 5 luglio 1975, possono essere derogate, fino a un massimo di 10 centimetri. Resta fermo che nei comuni montani al di sopra dei metri 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell’altezza minima dei locali abitabili a metri 2,55…”.
Al riguardo, si segnala che il Consiglio di Stato, Sez. IV, nella sentenza n. 1997 del 2014, ha avuto modo di affermare che “…Come chiarito da Corte costituzionale n. 256/96, “la disciplina del condono non vale ad escludere ogni obbligo da parte del Comune di accertamento delle condizioni di salubrità ai fini dell'abitabilità degli edifici……...”. “Né rileva” – prosegue la Corte – “la circostanza che l'art. 35, ventesimo comma, preveda, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, poiché la deroga non riguarda, i requisiti richiesti da disposizioni legislative”. Ne deriva che “deve escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità pur nella più semplice forma disciplinata dal d.P.R. n. 425 del 1994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del d.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì, quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall'inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.”. Nel caso di specie, rileva il Consiglio di Stato, “ad essere violate sono le norme in tema di altezza minima ed aereoilluminazione che, seppur previste dal Decreto del Ministro della Sanità del 5/7/1975 (e quindi da norme di carattere regolamentare) costituiscono diretta attuazione degli artt 218, 344 e 345 del testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934 n. 126. Il carattere secondario della fonte non toglie che esse attengano direttamente alla salubrità e vivibilità degli ambienti, ossia a condizioni tutelate direttamente da norme primarie e costituzionali. In questi casi, cioè, la norma secondaria concretizza il generico imperativo della norma primaria sostanziandone il contenuto minimo inderogabile in direzione di una tutela della salute e sicurezza degli ambienti. La verifica dell’abitabilità non può prescinderne.
Del resto, una diversa interpretazione che giungesse a sostenere la derogabilità dei requisiti minimi di salubrità, per il sol fatto di essere fissati con norma regolamentare si porrebbe sicuramente in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, oltre che con l’art. 32 della stessa….”.
Alla luce della giurisprudenza sopra richiamata le disposizioni regionali in commento appaiono violare il principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione e l’articolo 32 della stessa per contrasto con i parametri interposti rappresentati dalle citate disposizioni del D.M. 5 luglio 1975. In via subordinata, viene in rilievo la violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione “governo del territorio” e “tutela della salute”.

B.4. Ulteriore profilo di criticità è rappresentato dalla circostanza che ai sensi dell’articolo 4, comma 3, le disposizioni della legge in esame si applicano non solo agli immobili esistenti (presumibilmente corrispondenti ad immobili legittimamente realizzati o regolarmente legittimati alla data di entrata in vigore della legge medesima, ex art. 1, comma 3 della legge regionale), ma anche a quelli per la cui costruzione sia già stato conseguito il titolo abilitativo edilizio o l’approvazione dell’eventuale programma integrato di intervento richiesto alla data di approvazione della delibera del Consiglio comunale di cui al comma 1 del medesimo articolo.
In tal modo, la portata derogatoria (già di per sé, non coerente con le disposizioni del TUE, nel senso sopra precisato) viene, di fatto, estesa, con valenza retroattiva, ad immobili per la cui costruzione sia già stato conseguito il titolo abilitativo edilizio o l’approvazione dell’eventuale programma integrato di intervento.
Atteso che la previsione regionale è caratterizzata da un indubbio carattere innovativo, con efficacia retroattiva, essa potrebbe rendere legittime condotte che, non considerate tali al momento della loro realizzazione (perché non conformi agli strumenti urbanistici di riferimento), lo divengono per effetto dell’intervento successivo del legislatore, con l’ulteriore conseguenza di consentire la regolarizzazione ex post di opere che, al momento della loro realizzazione, erano in contrasto con gli strumenti urbanistici di riferimento, dando corpo a un intervento che esula dalle competenze regionali e risulta pertanto illegittimo.
Al riguardo, si precisa che nella sentenza n. 73 del 2017, la Corte costituzionale ha ribadito che:
“4.3.1…Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive sia innovative che di interpretazione autentica. La retroattività deve, tuttavia, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata (sentenza n. 170 del 2013, che riassume sul tema le costanti indicazioni di principio espresse dalla Corte).
Questa Corte ha, pertanto, individuato alcuni limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali tra i quali sono ricompresi «il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (sentenza n. 170 del 2013, nonché sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
Nella citata sentenza n. 73 del 2017, la Corte costituzionale ha, altresì, affermato che “Anche a voler ritenere che, nella specie, le disposizioni impugnate possano trovare una loro giustificazione nell’esigenza della Regione di assicurare una maggiore omogeneità alle norme in oggetto per fare fronte al sovrapporsi delle modifiche intervenute nel tempo, siffatta finalità deve ritenersi recessiva rispetto al valore della certezza del diritto, nel caso messo in discussione in una materia, quella urbanistica, rispetto alla quale assume una peculiare rilevanza l’affidamento che la collettività ripone nella sicurezza giuridica (sentenza n. 209 del 2010). Del resto, pur guardando alla potenziale incidenza delle norme impugnate sui rapporti interprivati, va osservato che le stesse, per quanto prevalentemente di favore rispetto agli interessi dei singoli destinatari, retroagendo nel tempo sacrificano, in linea di principio, le posizioni soggettive dei potenziali controinteressati che facevano affidamento sulla stabilità dell’assetto normativo vigente all’epoca delle singole condotte.”.
A ciò, si aggiunga, con specifico riferimento alla prevista approvazione dell’eventuale programma integrato di intervento, che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 232 del 2017, ha precisato che “Né alcun rilievo assume la presunta coerenza delle disposizioni impugnate con gli approdi di una parte della giurisprudenza amministrativa (sulla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale), peraltro contraddetta da orientamenti consolidati, espressi anche di recente (Consiglio di Stato, sez. sesta, n. 3194 del 2016), «perché un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe che provenire dal legislatore statale» (sentenza n. 233 del 2015).
In ogni caso, va ricordato che, nella sentenza n. 89 del 2019, la Corte costituzionale ha affermato che “...possono trovare ingresso, nel giudizio in via principale, questioni promosse in via cautelativa ed ipotetica, sulla base di interpretazioni prospettate soltanto come possibili, purchè non implausibili e comunque ragionevolmente desumibili dalle disposizioni impugnate" (ex multis, sentenza n. 103 del 2018, punto 4.1. del Considerato in diritto). Nel giudizio in via principale possono dunque essere dedotte "anche le lesioni in ipotesi derivanti, da distorsioni interpretative delle disposizioni impugnate" (sentenza n. 270 del 2017, punto 4.2. del Considerato in diritto).»”.
La richiamata disposizione della L.R. in questione travalica i limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte richiamata, violando l’articolo 3 della Costituzione.

Per i motivi sopra specificati la legge regionale, limitatamente alle disposizioni sopra richiamate, deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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