Dettaglio Legge Regionale

Testo unico governo del territorio e materie correlate. (21-1-2015)
Umbria
Legge n.1 del 21-1-2015
n.6 del 28-1-2015
Politiche infrastrutturali
/ Rinuncia parziale

RINUNCIA PARZIALE

Il Consiglio dei Ministri in data 27 marzo 2015 ha deliberato l’impugnativa di numerose disposizioni della legge della Regione Umbria n. 1/2015, recante «Testo unico governo del territorio e materie correlate».

Con la legge regionale n. 13/2016 la Regione Umbria ha apportato alcune modifiche alla legge regionale n. 1/2015 che consentono di ritenere in parte superati i profili di illegittimità costituzionale rilevati dal Governo in relazione al suddetto Testo unico.

In particolare, l’articolo 1 elimina dall’articolo 1 della l. n. 1/2015 il riferimento allo sviluppo sostenibile, consentendo di superare i rilievi formulati dal Governo in merito all’articolo 1, commi 2 e 3.
L’articolo 2 modifica l’articolo 7, comma 1, lettera b), eliminando il riferimento alle opere e alle modifiche necessarie a sostituire o a eliminare materiali inquinanti. Sostituisce, inoltre, il secondo periodo della lettera b), che definisce gli interventi di manutenzione straordinaria come “gli interventi consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari, con esecuzione di opere, anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari, nonché del carico urbanistico, senza modifica della volumetria complessiva degli edifici e della destinazione d’uso”. Le modifiche allineano la definizione a quella contenuta all’articolo 3, d.p.r. n. 380/2001 e consentono pertanto di superare l’impugnativa pendente avverso tale disposizione. Anche l’impugnativa pendente avvero le lettere d), g), m) ed n) si ritiene superabile a fonte delle modifiche apportate alla lettera d) e della precisazione concernente la portata di applicazione delle definizioni di isolato edilizio e di edificio.
L’articolo 3 modifica l’articolo 8, comma 1, lettera b) e comma 3, sopprimendo il riferimento al paesaggio e alle componenti paesaggistiche, architettoniche e storico-tipologiche. Di conseguenza, si ritengono superati i motivi di impugnativa della disposizione.
L’articolo 4 inoltre modifica l’articolo 9, comma 4, aggiungendo un richiamo alla prevalenza della pianificazione paesaggistica, cosa che consente di ritenere superati anche i motivi di impugnazione relativi a questa ultima disposizione. Analoghe considerazioni interessano le modifiche che l’articolo 5 apporta all’articolo. 10 della legge regionale n. 1/2015.
L’articolo 6 apporta modifiche all’articolo 11 della l. n. 1/2015, inserendo un richiamo agli articoli 95 e 96 del testo unico e sostituendo la parola “individuazione” con “ricognizione”. Tale modifica consente di ritenere superate le censure di incostituzionalità formulate avverso detta disposizione.
L’articolo 7 modifica l’articolo 15 della l.r. n. 1/2015, commi 1 e 5, al fine di prevedere la necessaria partecipazione degli organi ministeriali per quanto previsto dall’articolo 13 della l.r. 1/2015. Analogo richiamo è inserito all’articolo 18, comma 4, della l.r. 1/2015 dall’art. 8; all’articolo 32, comma 4 dall’articolo 10; all’articolo 49, comma 2, lettera a) dall’articolo 14; all’articolo 51, comma 6, dall’articolo 15. All’esito di queste modifiche, si ritiene superabile l’impugnativa pendente avverso le suddette disposizioni.
L’articolo 16 modifica l’articolo 54 della l. n. 1/2015, facendo venire meno le censure formulate con riferimento all’indennità di esproprio.
L’articolo 18 modifica l’articolo 64, comma 1, al fine di prevedere l’obbligo di approvare il piano attuativo nei centri storici, salvo che per gli interventi ad attuazione diretta. La modifica consente di superare l’impugnativa pendente avverso questa disposizione.
L’articolo 21 modifica l’articolo 79, comma 3, inserendo l’obbligo di tenere conto dell’ambiente urbano circostante, e consente di superare l’impugnativa pendente su questo profilo.
L’articolo 25 apporta modifiche all’articolo 95, comma 4 del testo unico, al fine di superare le criticità rilevate con riferimento alla normativa in materia di distanze. In particolare, è inserito l’obbligo di tenere conto del contesto circostante e sono fatte salve le distanze di sicurezza superiori ai 600 metri eventualmente previste dalle leggi statali. Per effetto di queste modifiche, viene meno l’interesse al ricorso pendente relativamente a tale disposizione.
L’articolo 26 apporta modifiche all’articolo 118, consentendo di superare l’impugnativa pendente relativamente al comma 1, lettera i), al comma 2, lettera e) e al comma 3, lettera e).
L’articolo 28 sostituisce l’articolo 124, comma 1, lettera g), inserendovi un richiamo espresso all’autorizzazione prevista dall’articolo 95 del RD n. 1775 del 1933. Per effetto di tale modifica si ritiene siano superati i motivi di incostituzionalità riscontrati in relazione alla precedente formulazione.
L’articolo 31 apporta modifiche all’articolo 140, sostituendo il comma 11 e il comma 12. Le modifiche apportate consentono di superare i rilievi di incostituzionalità formulati in relazione alla precedente formulazione delle due disposizioni.
L’articolo 32 modifica l’articolo 141, comma 2, in modo da superare i rilievi formulati dal Governo avverso l’originaria formulazione della norma. Lo stesso vale per le modifiche apportate dall’articolo 33 all’articolo 142, comma 1, l.r. n. 1/2015. Analogamente, il richiamo al rispetto della normativa vigente in materia di contratti pubblici inserito dall’articolo 34 all’art. 151, comma 4, della l.r. n. 1/2015, consente di superare l’impugnativa pendente avverso il suddetto articolo 151, comma 2 e comma 4.
L’articolo 35 apporta modifiche all’articolo 154, commi 1 e 3, l.r. n. 1/2015 che consentono di superare il contenzioso pendente.
L’articolo 43 apporta modifiche all’articolo 215, comma 5 e comma 12, e fa venire meno i profili di incostituzionalità rilevati con riferimento alla originaria formulazione della norma. Anche le modifiche apportate dall’articolo 47 all’articolo 243, comma 1, consentono di far venire meno l’impugnativa pendente avverso detta disposizione.

Pertanto, relativamente alle norme sopra richiamate, appaiono essere venuti meno i motivi del ricorso proposto innanzi alla Corte Costituzionale ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, e si propone quindi una rinuncia parziale all'impugnazione della legge della Regione Umbria n. 1/2015 con riferimento alle seguenti disposizioni: articolo 1, commi 2 e 3; articolo 7, comma 1, lettera b), d), g), m) ed n); articolo 8, comma 1, lettera b) e comma 3; articolo 9, comma 4; articolo 10; articolo 11; articolo 15 ; articolo 18, comma 4; articolo 32, comma 4; articolo 49, comma 2, lettera a); articolo 51, comma 6; articolo 54; articolo 79, comma 3; articolo 64, comma 1; articolo 95, comma 4; articolo 118, commi 1, lett. i), comma 2, lett. e), comma 3, lett. e); articolo 124; articolo 140, commi 11 e 12; articolo 141, comma 2; articolo 142, comma 1; articolo 151, commi 2 e 4; articolo 154, commi 1 e 3; articolo 215, commi 5 e 12; articolo 243, comma 1.

Permangono ancora validi il motivo di impugnativa di cui alla delibera del Consiglio dei Ministri dell'27/3/2015, relativi agli articoli: 13; 16; 17; 19; 28; 32; 56; 59; 118 (comma 1, lett. e), lett. h); 147; 155; 206; 250; 258; 264 della l.r. n. 1/2015.
27-3-2015 / Impugnata
La legge della Regione Umbria n. 1/2015 presenta profili di illegittimità costituzionale, per i motivi di seguito specificati, con riferimento alle seguenti disposizioni: art. 1, commi 2 e 3; art. 7, comma 1, lett. b), d), g), m), n); art. 8; art. 9, comma 4; art. 10, comma 1; art. 11, comma 1, lettera d); art. 13; art. 15, commi 1 e 5; art. 16, commi 4 e 5; art. 17; art. 19; art. 18, commi 4,5,6,7,8,9; art. 28, comma 10; art. 56, comma 3; art. 32, comma 4; art. 49, comma 2, lett. a); art. 51, comma 6; art. 79, comma 3; art. 56, comma 14; art. 54; art. 59, comma 3; art. 64, comma 1; art. 95, comma 4; art. 118, comma 1, lettere e) ed i), e comma 3; art. 118, comma 2, lettera e); art. 118, comma 3, lettera e); art. 140, comma 12; art. 124; art. 124, comma 1, lettera g); art. 140, comma 11; art. 141, comma 2; art. 142, comma 1; art. 147, art. 155, art. 118, comma 2, lett. h); art. 151, comma 2 e comma 4; art. 154, comma 1 e comma 3; art. 206, comma 1; art. 215, comma 5 e comma 12; art. 243, comma 1; art. 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, 202 e 208; art. 258; art. 264, comma 14 e 16.

1) L’articolo 1, commi 2 e 3
L’articolo 1, al comma 2 definisce il “governo del territorio” come “complesso coordinato, organico e sinergico, delle attività conoscitive, regolative, valutative, attuative, di vigilanza e controllo, nonché di programmazione, anche della spesa, riguardanti gli interventi di tutela, valorizzazione ed uso del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile nelle materie attinenti l’urbanistica e l’edilizia, compresa la disciplina antisismica”. Il comma 3 precisa che “Ai fini del presente TU sono materie correlate, limitatamente agli strumenti urbanistici e ai titoli abilitativi edilizi, le norme in materia di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e di tutela dell’ambiente e della salute pubblica dall’inquinamento acustico prodotto dalle attività antropiche”. Tali previsioni, nell’introduzione una nuova definizione di “governo del territorio”, non prevista dalla legge statale, travalicano i limiti della competenza concorrente attribuita alle Regioni dall’art. 117, comma 3, della Costituzione, in riferimento alla materia “governo del territorio”. È riservata allo Stato, infatti, l’enunciazione di quei principi fondamentali (tra i quali rientra evidentemente la definizione stessa della materia in questione) atti a garantire una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale. In altri termini, deve escludersi che nelle materie di legislazione concorrente le Regioni possano rivendicare il potere di definire autonomamente la materia stessa, invadendo con ciò l’ambito dei principi fondamentali che l’art. 117, terzo comma, Cost. riserva alla competenza legislativa dello Stato.
Dalla definizione della materia “governo del territorio” discendono, infatti, conseguenze sulla applicazione della normativa statale.
Ad esempio, l’art. 2, comma 5, prevede che la Regione e gli enti locali “negli atti normativi e nei procedimenti amministrativi in materia di governo del territorio e materie correlate di cui al presente TU, non possono introdurre ulteriori adempimenti regolatori, informativi o amministrativi senza contestualmente ridurne o eliminarne altri con riferimento al medesimo arco temporale e comunque senza costi aggiuntivi”. E’ evidente che la Regione e gli enti locali non potrebbero sopprimere adempimenti regolatori, informativi o amministrativi previsti dalla legge statale in ambiti di competenza legislativa esclusiva (come la tutela dell’ambiente o della salute, o i livelli essenziali della prestazioni), o nella determinazione dei principi fondamentali di materie di legislazione concorrente (quale il governo del territorio). La formulazione dell’art. 1, letto congiuntamente all’art. 2, invece, si presta a questa interpretazione. Analogamente, il comma 6 dell’art. 2 prevede che “Le pubbliche amministrazioni nell'esercizio dei poteri amministrativi concernenti la materia di governo del territorio e materie correlate, di cui al presente TU, adottano gli atti e provvedimenti amministrativi di propria competenza scegliendo la soluzione meno afflittiva per le imprese ed i cittadini.” Anche in questo caso, dal combinato disposto delle due norme sembrerebbe che la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni “nell'esercizio dei poteri amministrativi concernenti la materia di governo del territorio e materie correlate” possa essere sempre indirizzata alla scelta della soluzione meno “affittiva” per le imprese ed i cittadini, mentre, specialmente in alcuni settori (la tutela dell’ambiente, della salute, della pubblica incolumità..), che la definizione di cui all’art. 1 riconduce al “governo del territorio e materie correlate”, sono altri gli interessi pubblici che devono prevalere.
Alla luce delle considerazioni formulate, si ritiene che la definizione di “governo del territorio” contenuta all’articolo 1, commi 2 e 3, contrasti con l’articolo 117, comma 3, della Costituzione.

2) L’articolo 7, comma 1, lettere b), d), g), m) ed n),
L’articolo 7, comma 1, lettere b), d), g), m) ed n), presenta profili di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, comma 3, della Costituzione (con riferimento alla materia “governo del territorio”).
Le disposizioni censurate dettano alcune definizioni in materia edilizia che, in parte, contrastano con quelle espressamente individuate dalla normativa statale (ad esempio, nel caso della “manutenzione straordinaria” e della “ristrutturazione edilizia”), in parte non sono contenute nella normativa statale, che deliberatamente – in un’ottica di semplificazione – ha scelto di accorpare le categorie gli interventi edilizi, riducendole a quelle individuate nell’art. 3 del d.p.r. n. 380/2001 (come nel caso delle “opere interne”), oppure deliberatamente ha scelto di non definire determinate categorie concettuali, rimettendole, quindi, alle elaborazioni giurisprudenziali e all’interpretazione (è il caso della nozione di “edificio” e di “isolato edilizio”).
Viene in rilievo, in particolare, l’art. 3 del testo unico dell’edilizia adottato con il d.p.r. n. 380/2001, che definisce la “manutenzione straordinaria” e la “ristrutturazione edilizia” in modo diverso dall’art. 7 della l.r. Umbria 1/2015, mentre non disciplina affatto le nozioni di “edificio” e di “isolato edilizio” (pur riferendosi ripetutamente a queste categorie concettuali nella Parte II – Normativa tecnica per l’edilizia). La formulazione letterale di tali disposizioni, specialmente delle ultime due (lettere m ed n), consente astrattamente di darne un'applicazione generale, e quindi è suscettibile di avere effetti sulle modalità di applicazione delle norme poste dal legislatore statale a tutela di interessi unitari.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 309/2011, ha chiarito che le definizioni degli interventi edilizi contenute all’art. 3 del testo unico costituiscono un principio fondamentale della legislazione statale nella materia “governo del territorio”. La Corte, in particolare, ha osservato che “sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali” e che quindi “rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi”. Inoltre, si rileva che come più volte osservato dalla Corte Costituzionale – da ultimo con la sentenza n. 49/2014 - qualora una materia sia di competenza esclusiva dello Stato (e ciò deve ritenersi, quindi, nel caso della definizione di un principio fondamentale in una materia di competenza concorrente), sono “inibiti alle Regioni interventi normativi diretti ad incidere sulla disciplina dettata dallo Stato, finanche in modo meramente riproduttivo della stessa (sentenza n. 245 del 2013, che richiama le sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006)”.
Anche se deve ritenersi che il presente motivo abbia carattere assorbente, si rileva che le disposizioni censurate sono affette anche da ulteriori profili di incostituzionalità e, come si vedrà di seguito, contrastanoanche con l’articolo 117, comma 2, lett. s) e, limitatamente alla lettera d), con l’articolo 9, nonché, sotto altro profilo, con l’articolo 117, comma 3 della Costituzione.

2.1) L’articolo 7, comma 1, lettera b)
L’art. 7, comma 1, lettera b), definisce gli interventi di manutenzione straordinaria come “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici e delle loro pertinenze, sempre che non alterino i volumi e la superficie utile coperta complessiva delle unità immobiliari e non comportino modifica della destinazione d'uso, e inoltre le opere e le modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti. Sono altresì classificabili come manutenzione straordinaria gli interventi consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari, anche con esecuzione di opere, senza modifica della destinazione d'uso”. Tale previsione contrasta con l’articolo 3, comma 1, lettera b), del testo unico dell’edilizia di cui al d.p.r. n. 380/2001, come modificato dall’articolo 17, comma 1, lettera a), n. 1 e 2 del d.l. n. 133/2014, nella parte in cui non prevede che gli interventi di frazionamento e accorpamento delle unità immobiliari possono comportare “la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione di uso”. Di conseguenza, la disposizione regionale ascrive nel novero della ristrutturazione edilizia interventi che invece andrebbero ricondotti alla manutenzione straordinaria, incidendo così sull’individuazione del titolo abilitativo necessario per realizzare tali interventi.
L’articolo 7, comma 1, lettera b), inoltre, include tra gli interventi di manutenzione straordinaria: “…le opere e le modifiche necessarie a sostituire o eliminare materiali inquinanti”. L’art. 118, comma 2, lettera a), prevede che questi interventi siano di “attività edilizia libera”, realizzabili previa comunicazione al comune. La previsione contenuta all’art. 7, comma 1, lett. b), oltre a contrastare con l’articolo 3, comma 1, lettera b) del d.p.r. n. 380/2001, che non annovera queste opere nell’ambito della manutenzione straordinaria, riconducendo alla materia “edilizia” l’esercizio di un’attività consistente nella gestione di rifiuti o addirittura nella realizzazione di interventi di bonifica (cui la sostituzione o l’eliminazione di detti materiali può sostanzialmente ricondursi), invade la potestà legislativa statale nella materia di tutela dell’ambiente, a cui va ricondotta la disciplina dei rifiuti e della bonifica.
Per effetto del combinato disposto delle due norme regionali sopra richiamate, non è assicurato il rispetto di quanto previsto dal D.Lgs. n. 152/2006 in materia di rifiuti (in particolare agli articoli 177, comma 4; 179, commi 1 e 2; 181, commi 1 e 4).
L’articolo 118, comma 3, infatti, nell’individuare il contenuto della comunicazione prevista al comma 2 del medesimo articolo, infatti, fa genericamente riferimento a “le autorizzazioni previste come obbligatorie dalla normativa di settore, fatti salvi i casi in cui queste possono essere sostituite da autocertificazione”. Altrettanto generica è la clausola di salvaguardia contenuta al comma 5 dello stesso art. 118, che non contiene alcun espresso riferimento alle norme in materia ambientale contenute nel codice dell’ambiente, mentre richiama il necessario rispetto “in particolare, delle norme antisismiche, come previsto all'articolo 114, comma 11, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative alla efficienza energetica, nonché delle disposizioni contenute nel D.Lgs. 42/2004 e nell'atto di indirizzo di cui all'articolo 248, comma 1, lettere b) e g), nonché gli eventuali adempimenti fiscali e tributari, compresi gli atti di aggiornamento catastale nei termini di legge”. A fronte di ciò, le norme censurate sembrano idonee a far sorgere nell’interessato il ragionevole convincimento che non ci siano normative specifiche da seguire sulla eliminazione e sostituzione dei materiali inquinanti, non garantendo, dunque, il rispetto della normativa ambientale in materia di gestione di rifiuti.
Posto che la normativa dei rifiuti e della bonifica rientra nell’ambito della potestà legislativa esclusiva statale in materia di ambiente, dunque, le disposizioni censurate contrastano, oltre che con un principio fondamentale in materia di governo del territorio, anche con l’articolo 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

2.2) L’articolo 7, comma 1, lettera d)
L’articolo 7, comma 1, lettera d) definisce gli “interventi di ristrutturazione edilizia” includendovi “l’aumento delle superfici utili interne”. Tale previsione contrasta con l’articolo 3, comma 1, lettera b) del testo unico dell’edilizia n. 380/2001, come modificato dall’articolo 17, comma 1, lettera a), n. 1 e 2 del d.l. n. 133/2014, che riconduce alla manutenzione straordinaria gli interventi di frazionamento e accorpamento delle unità immobiliari che comportano “la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l’originaria destinazione di uso”.
Inoltre, lo stesso articolo 7 include nell’ambito della ristrutturazione edilizia gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione anche con modifiche della superficie utile coperta, di sagoma ed area di sedime preesistenti, nell’inserimento di strutture in aggetto e balconi, senza comunque incremento del volume complessivo dell’edificio originario, fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica e per l’installazione di impianti tecnologici”. Tale previsione contrasta con l’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, come modificato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in quanto, a differenza di quella statale, non prevede che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Poiché l’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, mantenendo per gli immobili vincolati il principio del rispetto della sagoma ai fini della classificazione dell’intervento come “ristrutturazione edilizia”, costituisce, non solo norma di principio in materia di governo del territorio, ma altresì disposizione in materia di tutela del patrimonio culturale (come affermato nella citata sentenza C. Cost. n. 309/2011), l’art. 7, comma 1, lettera d) viola anche l’art. 9 e l’art. 117, comma 2, lett. s) e comma 3, della Costituzione.

2.3) L’articolo 7, comma 1, lett. g) e 118, comma 1, lettera e),
L’articolo 7, comma 1, lett. g) definisce le “opere interne” come “quelle da realizzare all'interno delle unità immobiliari concernenti l'eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici, nonché concernenti la realizzazione ed integrazione dei servizi igienicosanitari e tecnologici, da realizzare nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie, sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti”. Si tratta di una definizione non prevista nel d.p.r. n. 380/2001, ma che in buona parte coincide con quella di “manutenzione straordinaria” (art. 3, comma 1, lett. b), che include “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”. Quella delle “opere interne” era una definizione prevista dall’art. 28 della l. n. 47/1985 che, in un’ottica di semplificazione dell’individuazione delle tipologie di interventi edilizi e dei rispettivi titoli abilitativi, il legislatore del d.p.r. n. 380/2001 ha ritenuto di non riprodurre. La definizione regionale, pertanto, presentando margini di sovrapposizione con altre categorie individuate dalla legge statale, è foriera di incertezze applicative e ha riflessi sul regime dei titoli abilitativi all’esercizio dell’attività edilizia. Il legislatore nazionale, infatti, ha assoggettato queste opere (inizialmente soggette a DIA) a comunicazione di inizio lavori asseverata (art. 6, co. 2, lett. a) e comma 4), perché la loro rilevanza richiede quantomeno il coinvolgimento di un tecnico abilitato. Il legislatore regionale, invece, all’art. 118, comma 1, lettera e), annovera questi interventi edilizi tra quelli totalmente liberi. Le due disposizioni regionali citate, dunque, contrastano con i principi fondamentale in materia di governo del territorio contenuti nella legislazione statale e quindi violano l’art. 117, comma 3, della Costituzione.

2.4) L’articolo 7, comma 1, lett. m) ed n)
L’articolo 7, comma 1, lett. m) ed n), introduce, rispettivamente, la definizione di “edificio” (“insieme di strutture portanti ed elementi costruttivi e architettonici reciprocamente connessi in modo da formare con continuità da cielo a terra una entità strutturale autonoma, sia isolata o collegata ad altri edifici adiacenti, composta da una o più unità immobiliari, indipendentemente dal regime della proprietà”) e di “isolato edilizio” (“costruzione delimitata da spazi aperti su ogni lato e la costruzione stessa si considera divisa in più isolati edilizi per le parti rese strutturalmente indipendenti da giunti sismici di adeguata ampiezza”). Tali nozioni, non previste nella normativa statale contenuta nel d.p.r. n. 380/2001, interferiscono specialmente sull’ambito di applicazione della Normativa tecnica per l'edilizia contenuta nella Parte II del testo unico.
Le definizioni “edificio” e di “isolato edilizio”, la cui formulazione letterale, tra altro, consente astrattamente di darne un'applicazione generale, costituiscono il presupposto per l’applicazione di norme poste dal legislatore statale a tutela di interessi unitari. Tra queste rientrano, in particolare, le norme relative alle costruzioni in zone sismiche, contenute agli artt. 83 e ss. del DPR n. 380/2001 e nelle specifiche norme tecniche emanate con decreti del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti locali.
La Corte costituzionale ha chiarito che la competenza statale in materia di vigilanza sulle costruzioni riguardo al rischio sismico si giustifica «attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’'incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui,ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali» (sent. n. 182 del 2006; si veda anche sent. n. 64 del 2013). L'uniforme applicazione delle norme per le costruzioni in zone sismiche presuppone, evidentemente, una definizione altrettanto uniforme di «edificio» e alla luce di questa considerazione risulta esorbitante, rispetto alla sfera di competenza regionale, la previsione regionale che intende dare una propria definizione generale, a maggior ragione se essa comporta poi l'applicazione di norme con fini di protezione civile e di riduzione del rischio rilevante in relazione alle azioni sismiche. Gli artt. 83 e ss. del TU dell'edilizia, infatti, si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, da realizzarsi nelle zone dichiarate sismiche, senza alcuna distinzione tra nuove costruzioni e opere realizzate previa demolizione di manufatti preesistenti (Cons. St., sez. IV, sent. n. 3703 del 2009) e senza che sia rilevante il carattere stabile o precario della costruzione (Cass. pen., sez. III, sent. n. 17623 del 2006).
Tale definizione appare più ampia di quella data dall'art. 7 della legge regionale in esame che, nel riferirsi all'«insieme di strutture portanti ed elementi costruttivi e architettonici reciprocamente connessi in modo da formare con continuità da cielo a terra una entità strutturale autonoma, sia isolata o collegata ad altri edifici adiacenti, composta da una o più unità immobiliari, indipendentemente dal regime della proprietà» presuppone un grado di completezza dell'edificio (che deve essere dotato di una copertura e soprattutto «strutturalmente autonomo») non richiesta dalla normativa statale.
La norma regionale dunque viola l'art. 117, co. 3, Cost. (con riferimento alle materie “governo del territorio” e “protezione civile”), per contrasto con i principi fondamentali dettati dalle norme sopra indicate del TU dell'edilizia. Infatti, se alla nozione di «edificio» la legge regionale dà portata generale, seppure “ai fini del presente TU”, posto che in quest’ultimo sono contenute anche le norme tecniche in materia di costruzioni in zone sismiche, è evidente che si va a determinare una restrizione dell'ambito di applicazione di una disciplina statale, dettata alla luce di esigenze unitarie di tutela dell'incolumità pubblica, con violazione dell'art. 117, co. 3, Cost.

3) Gli articoli 8, 9 (comma 4) e 10 (comma 1)
Gli articoli 8, 9 (comma 4) e 10 (comma 1) nel disciplinare i rapporti tra Programma Strategico Territoriale-PST e il Piano paesaggistico regionale-PPR, invadono la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela del paesaggio e quindi violano l’articolo 9 e l’articolo 117, comma 2, lettera s) della Costituzione; inoltre, le disposizioni impugnate violano anche l’articolo 117, comma 3 (con riferimento alle materie “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali”).
Le norme censurate, nel disciplinare il Programma Strategico Territoriale-PST, che l’art. 4 della legge regionale definisce “strumento di livello e scala regionale, di dimensione strategica e programmatica”, duplicano in alcuni casi e si sovrappongono in altri casi alle previsioni e prescrizioni proprie del piano paesaggistico, alterando la corretta gerarchia tra i diversi strumenti di pianificazione. Ancorché l’art. 14 della legge regionale stabilisca comunque la prevalenza del PPR, ai sensi dell’art. 145, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, le duplicazioni e sovrapposizioni, che si vanno a illustrare nel dettaglio, costituiscono in ogni caso una violazione della sfera di attribuzioni normative statali e una causa di incertezza interpretativa e applicativa foriera di un potenziale indebolimento della tutela.
L’art. 8 (Finalità e contenuti del Programma Strategico Territoriale (PST)), comma 1, lett. b), nell’affermare che il PST “b) è […] strumento per la costruzione e la condivisione delle scelte di sviluppo sostenibile del territorio comprensive della valorizzazione del paesaggio”, viola l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. Tale disposizione sottrae contenuti al piano paesaggistico – come configurato dal d.lgs. n. 42/2004 (artt. 135 e 143) – per trasferirli al Programma Strategico Territoriale, che è un piano non di salvaguardia, ma di sviluppo territoriale. Infatti, l’art. 143, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 42/2004 prevede che la valorizzazione dei beni paesaggistici sia contenuta nel piano paesaggistico. Analoga censura deve essere portata contro il comma 3 dell’art. 8, che afferma che il PST “indica le azioni necessarie alla mitigazione del rischio territoriale ed ambientale, al risanamento delle singole componenti dell'ecosistema ed alla valorizzazione delle specificità paesaggistiche, architettoniche e storico-tipologiche dell'Umbria”. L’art. 143, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 42/2004, infatti, annovera tra i contenuti del piano paesaggistico l’“analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell'individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché comparazione con gli altri atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo”.
Alla stessa stregua la previsione dell’art. 9, comma 4, per cui “L'attività di pianificazione degli enti locali è svolta in coerenza con il PST”, non riferendosi al piano paesaggistico, viola l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.: essa infatti contrasta con il principio generale dell’art. 145 (Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione), commi 3 e 4, in base al quale “3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell'adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette. 4. I comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione. I limiti alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto di indennizzo”. L’art. 9, imponendo ai comuni la conformazione al PST, li obbliga indirettamente a disattendere il piano paesaggistico quando contrastante, il che è una conferma dell’indebita sovraordinazione del PST al PPR, evincibile peraltro anche dalle ulteriori norme regionali che si esaminano qui di seguito.
L’art. 10, comma 1, secondo cui il Piano Paesaggistico Regionale (PPR) deve essere «in correlazione a quanto previsto dal PST», vale a dire deve essere coerente con il Programma Strategico Territoriale (PST), il quale è un piano territoriale di sviluppo economico, vale a dire un piano urbanistico, contraddice il “principio della «gerarchia» degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali” (Corte cost., 30 maggio 2008, n. 180), di cui al principio fondamentale (rilevante ex art. 117, terzo comma, Cost.) espresso dal sopra riportato art. 145, comma 3, d.lgs. n. 42/2004.
Secondo la Corte Costituzionale (sent. n. 180 del 2008): “L’art. 145, comma 3, contempla il principio di «prevalenza dei piani paesaggistici» sugli altri strumenti urbanistici, precisando, segnatamente, che: «Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette»”. È dunque evidente che una cosa è questa prevalenza gerarchica voluta dal codice (e dunque dall’art. 117, secondo comma, lett. s), e terzo comma, Cost.), un’opposta cosa è la detta «correlazione» prevista dall’art. 10, comma 1, della legge regionale dell’Umbria n. 1 del 2015. La «correlazione» sta piuttosto a significare una relazione gerarchica inversa, cioè (potenzialmente anche) una relazione di subordinazione del PPR al PST, visto che l’ordine di queste disposizioni normative regionali antepone il PST al PPR [sotto il comune Capo I - Programmazione territoriale - il PST (art. 8) precede il PPR (art. 10)]. Ma se tale correlazione fosse anche di equiordinazione tra i due strumenti, il ricordato principio gerarchico dell’art. 145 sarebbe egualmente sovvertito, perché l’equiordinazione è il contrario della gerarchia. Tale ambigua correlazione rischia di subordinare la salvaguardia del paesaggio, dal punto di vista pianificatorio, allo ‘sviluppo’ del territorio (che è l’obiettivo fondamentale del PST), con indebolimento della funzione conservativa propria del piano paesaggistico.
La complessiva dequotazione del PPR rispetto al PST, con l’annessa accentuazione del solo profilo dello sviluppo territoriale e conseguente minusvalenza dei profili conservativi e di tutela, risulta peraltro accentuata dalla scelta regionale consacrata nell’art. 13, comma 1, di limitare la copianificazione paesaggistica con il Ministero “ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d) del d.lgs. 42/2004”.
Tale scelta, ancorché formalmente legittima (atteso che l’art. 135 del codice impone la copianificazione solo per i beni vincolati e lascia alla scelta discrezionale regionale la possibilità alternativa), si pone in contrasto con le migliori pratiche amministrative finora seguite da alcune regioni (vedi Sardegna, Puglia, Toscana), che hanno preferito, con l’accordo del Ministero, la copianificazione estesa all’intero territorio regionale, essendo tale scelta più coerente con i dettami della Convenzione europea (fatta a Firenze il 20 Ottobre 2000, ratificata con legge n. 14 del 9 gennaio 2006). L’attenzione per la dimensione paesaggistica con riferimento all’intero territorio, rappresenta uno dei principi fondamentali della Convenzione che, all’articolo 2, dispone che essa “si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati”.
E’ evidente che la copianificazione limitata alla trattazione delle sole aree territoriali coperte da vincolo indebolisce la visione strategica del PPR e rende tale strumento oggettivamente dipendente dalle scelte strategiche orientate prevalentemente allo sviluppo contenute nel PST, che invece riguarda l’intero territorio regionale. In questa ottica il PST rischia di diventare la cornice generale delle linee ispiratrici dello sviluppo dell’intero territorio regionale, all’interno del quale il PPR assume una dimensione solo consequenziale e inevitabilmente subordinata.

4) L’articolo 11, comma 1, lettera d)
L’articolo 11, comma 1, lettera d), nel prevedere tra i contenuti del PPR “la individuazione dei beni paesaggistici di cui agli articoli 134 e 142 del d.lgs. 42/2004, con la definizione delle discipline di tutela e valorizzazione”, contrasta con l’art. 143, comma 1, d.lgs. n. 42/2004, che stabilisce che l’elaborazione del piano paesaggistico comprende “la ricognizione“ e non “l’individuazione” di tali aree e immobili. Il codice dei beni culturali e del paesaggio, infatti, usa distintamente, all’art. 143, i termini “individuazione” e “ricognizione”, attribuendo ad essi un significato diverso. In particolare, il codice usa il termine “ricognizione” in quanto la pianificazione paesaggistica si limita ad accertare l’esistenza dei beni paesaggistici, già individuati con vincolo provvedimentale o ex lege. L’uso del termine “individuazione”, invece, è utilizzato dallo stesso articolo del codice in relazione a ulteriori beni sottoposti ex novo dai piani paesaggistici a tutela o comunque a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione. Orbene, l’uso indistinto del termine “individuazione” da parte del legislatore regionale può significare l’attribuzione alla pianificazione paesaggistica di una funzione non solo ricognitiva, ma anche tacitamente abrogativa dei vincoli esistenti, in palese contrasto con l’art. 143 del codice, che non attribuisce tale funzione alla pianificazione paesaggistica. Pertanto, la disposizione censurata viola l’art. 9 e l’art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

5) L’articolo 13
L’articolo 13 nel disciplinare il procedimento di approvazione regionale del PPR, ai commi 4 e 5, non assicura la necessaria compartecipazione paritetica dello Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo nella “approvazione” sostanziale dei contenuti del nuovo piano paesaggistico. L’art. 143, comma 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio, pur rinviando alle leggi regionali la disciplina delle modalità di approvazione del piano, postula che l’approvazione regionale debba rispecchiare e recepire l’accordo definito con il MIBACT avente ad oggetto il nuovo piano redatto congiuntamente. Per quanto le disposizioni codicistiche non individuino il momento in cui l’accordo conclusivo avente ad oggetto il nuovo piano redatto congiuntamente debba esattamente intervenire, è logico ed evidente che si porrebbe in contrasto con la norma statale di tutela la disciplina regionale che collochi l’accordo con il Ministero in una fase anteriore agli ulteriori sviluppi dell’iter approvativo regionale – scaglionato in successivi passaggi deliberativi dell’organo di governo o di quello consiliare – senza farsi carico di stabilire garanzie chiare e certe di conformità del testo finale del piano, per come esitato dai vari passaggi consiliari, a quello sancito nell’accordo con il Ministero.
La sequenza procedimentale individuata all’articolo 13 non assicura che l’elaborazione del PPR sia realmente congiunta tra Stato e Regione. Nonostante il richiamo all’elaborazione congiunta contenuto nel comma 1, infatti, l’elaborato appare modificabile unilateralmente dalla Regione, a seguito delle osservazioni e audizioni varie descritte nell’art. 13. Non si rinvengono disposizioni idonee ad assicurare che quanto emerge da dette osservazioni e audizioni sia da sottoporre all’esame del Ministero al fine di verificare la fedeltà e la corrispondenza del nuovo testo a quello oggetto di accordo (o al fine di rinegoziare con il Ministero l’accordo sui punti che fossero risultati modificati per effetto del successivo iter approvativo regionale).
Dalla sequenza procedurale proposta dall’art. 13 (comma 4) sembra che l’accordo con il Ministero debba avere ad oggetto il piano paesaggistico adottato dalla giunta regionale (previa espressione del parere del consiglio delle autonomie locali e previa acquisizione delle proposte e delle osservazioni dei soggetti interessati e delle associazioni portatrici di interessi diffusi, e una volta acquisito il “parere preliminare alla sottoscrizione degli accordi previsti dall’articolo 143, comma 2 del d.lgs. 42/2004” espresso dall’assemblea legislativa “esaminate le proposte ed osservazioni pervenute e formulate le valutazioni sulle stesse”, “unitamente al parere del CAL). Sennonché, in base al comma 5 dell’art. 13, il consiglio regionale “decide in merito alle proposte ed osservazioni e approva il PPR nel rispetto di quanto previsto dagli articoli 135 e 143 del d.lgs. 42/2004”, senza che sia previsto alcun momento di confronto successivo con il Ministero atto a verificare che il piano approvato dal consiglio corrisponda o si discosti rispetto a quello adottato dalla giunta e portato in sede di accordo con il Ministero sulla base del solo parere preliminare del consiglio. Sotto il medesimo profilo, appare criticabile la scelta di non coinvolgere gli organi tecnici ministeriali nell’esame delle osservazioni prima della finale decisione del consiglio. Una logica negoziale autentica imporrebbe che prima di passare alla valutazione politica del consiglio regionale (vale a dire, all’ultima parola della Regione), sulle osservazioni in questione, essenzialmente tecniche, si esprimessero simmetricamente i tecnici del Ministero. Con la disposizione di legge regionale in esame si rende asimmetrico lo sviluppo procedimentale e si vanifica il principio dell’elaborazione congiunta. In altri termini, la pur affermata elaborazione “congiunta” rischia di restare circoscritta da questa asimmetria a un mero momento istruttorio e preliminare e non rappresenta più quel momento autenticamente e consapevolmente co-decisorio del procedimento cui il disegno del codice la preordina perché possa avere quegli effetti di semplificazione (parere del soprintendente non più vincolante, ma solo obbligatorio) che tanto incidono sulle prerogative statali di tutela. Consegue da quanto sopra la violazione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., mediante violazione dell’art. 143, comma 2, del codice. Da tale lesione segue un consequenziale lesione dell’art. 9, secondo comma, Cost. poiché la sequenza procedimentale, nel consentire unilaterali modifiche del piano in sede di consiglio regionale, senza prevedere successive verifiche, comporta la possibilità di trasformare nei fatti quella che dovrebbe essere una manifestazione di discrezionalità tecnica in una manifestazione di (unilaterale) volontà politica consiliare, con ciò tradendo il significato di tutela di cui all’art. 9 Cost., significato che è di discrezionalità tecnica e – proprio perché inserito in una Costituzione - di limite alla politica.

6) L’articolo 15, commi 1 e 5
L’articolo 15, commi 1 e 5 nel disciplinare l’adeguamento degli strumenti di pianificazione al PPR, prevede che “Le province e i soggetti gestori delle aree naturali protette conformano i rispettivi piani e programmi al PPR nei termini ivi stabiliti che non devono essere superiori ad un anno dall’approvazione del medesimo PPR” (comma 1) e che “Le procedure di adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici comunali al PPR sono quelle previste all’articolo 32, comma 4, lettera j) e comma 10” (comma 5). Tali disposizioni non prevedono la partecipazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo al procedimento per l’adeguamento degli strumenti urbanistici al PPR, in contrasto con quanto prevede l’art. 145, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo cui “La regione disciplina il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo”.
Il d.lgs. n. 42/2004 richiede che la verifica dell’intervenuto adeguamento (o conformazione) degli strumenti urbanistici si concreti in una espressa e specifica pronuncia propria del Ministero sul punto. Ciò si evince dal combinato disposto dell’art. 145, comma 5, con l’art. 146, comma 5, secondo periodo, che, al fine di definire il momento temporale e giuridico a partire dal quale opera la dequotazione del parere statale da vincolante a solo obbligatorio, opera un preciso riferimento alla positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici.
Sul punto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 211 del 2013, ha stabilito che l’esclusione di qualsiasi partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di verifica di compatibilità degli strumenti di pianificazione delle amministrazioni locali al piano regionale paesistico si pone “in evidente contrasto con la normativa statale interposta e, in particolare, con il citato art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, il quale - in linea con le prerogative riservate allo Stato dalla disposizione costituzionale evocata a parametro, come anche riconosciute da costante giurisprudenza di questa Corte (tra le molte, sentenza n. 235 del 2011) - specificamente impone che la Regione adotti la propria disciplina «assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo»”. Analogamente, con la sentenza n. 197 del 2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 della legge della Regione Piemonte 25 marzo 2013, n. 3, nella parte in cui non prevedeva la partecipazione degli organi del Ministero per i beni e le attività culturali al procedimento di conformazione agli strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica delle varianti al piano regolatore generale comunale e intercomunale. In particolare la Corte, dopo aver ribadito i principi enunciati nella sentenza n. 211 del 2013, ha osservato che “Costituisce, infatti, affermazione costante – su cui si fonda il principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, dettato dall’evocato art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 (sentenze n. 193 del 2010 e n. 272 del 2009) – quella secondo cui l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 182 del 2006). Al contrario, nella specie, la generale esclusione della partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, veniva a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica (sentenza n. 437 del 2008)”. Consegue da quanto sopra la violazione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., mediante violazione dell’art. 145, comma 5, d.lgs. n. 42/2004.
7) Gli articoli 16 (commi 4 e 5), 17, 19, 21(comma 1, lettera e) e comma 2, lettera f)
Gli articoli 16 (commi 4 e 5), 17 e 19 che disciplinano il contenuto del Piano territoriale di coordinamento provinciale-PTCP e i rapporti di questo strumento urbanistico con il piano regolatore generale, si pongono in contrasto con l’articolo 20, comma 2, d.lgs. n. 267/2000 e all’articolo 1, comma 85, l.n. 56/2014, e pertanto violano l’articolo 117, comma 2, lettera p) e comma 3, della Costituzione, con riferimento ai principi fondamentali in materia di governo del territorio. In particolare, si osserva che l’art. 1, comma 85 della l.n. 56/2014 (c.d. “legge Del Rio”) annovera la pianificazione territoriale di coordinamento tra le funzioni fondamentali delle province, quali enti con funzioni di area vasta. Il comma 87 specifica che dette funzioni “sono esercitate nei limiti e secondo le modalità stabilite dalla legislazione statale e regionale di settore, secondo la rispettiva competenza per materia”, come individuata all’art. 117 della Costituzione. Al riguardo, si osserva che il contenuto del piano territoriale di coordinamento è previsto all’articolo 20, comma 2, del testo unico sugli enti locali (d.lgs. n. 267/2000). Secondo tale norma il piano territoriale di coordinamento “determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica:
a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;
b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione;
c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;
d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali”. Il comma 5 dell’articolo 20, inoltre, prevede che “Ai fini del coordinamento e dell’approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale predisposti dai comuni, la provincia esercita le funzioni ad essa attribuite dalla regione ed ha, in ogni caso, il compito di accertare la compatibilità di detti strumenti con le previsioni del piano territoriale di coordinamento”. In generale, infine, il comma 6 dispone che “6. Gli enti e le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle rispettive competenze, si conformano ai piani territoriali di coordinamento delle province e tengono conto dei loro programmi pluriennali”. Appare chiaro, quindi, che la normativa statale concepisce il PTCP come strumento di pianificazione di area vasta, sovraordinato rispetto al piano urbanistico comunale.
Come di seguito specificato, le disposizioni regionali censurate, nel ridurre drasticamente il contenuto del PTCP e nel modificare i rapporti di questo strumento urbanistico con i piani regolatori generali, contraddicono l’essenza della pianificazione di area vasta e dunque, oltre a contrastare con i principi fondamentali in materia di governo del territorio sopra richiamati, incidono sulla disciplina di una funzione fondamentale attribuita dallo Stato alla competenza delle province. Infatti, l’art. 16 della legge regionale umbra, al comma 4, prevede che “Le province con il PTCP (…): a) raccordano e coordinano i diversi piani sovracomunali nei limiti dagli stessi previsti; b) forniscono ai comuni le basi conoscitive utili per le azioni pianificatorie; c) promuovono azioni di raccordo tra le pianificazioni dei comuni con particolare riferimento a quelli i cui territori presentano un'elevata continuità morfologica o funzionale, in cui le scelte di pianificazione comportano significativi effetti di livello sovracomunale; d) esercitano le funzioni per attuare la perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di rilevanza intercomunale”. Il comma 5, invece, dispone che “Le province, attraverso il PTCP, promuovono il coordinamento con le province ed i comuni contermini ai fini dell'integrazione delle rispettive politiche territoriali”. Già da queste disposizioni risulta evidente che i PTCP non hanno la funzione essenziale, prevista dalla testo unico degli enti locali, di “determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio”. I PTCP si limitano a un mero “raccordo e coordinamento” degli altri piani sovracomunali, peraltro “nei limiti dagli stessi previsti”, a “fornire ai comuni … basi conoscitive”, a “promuovere azioni di raccordo della pianificazione comunale”, a “attuare la perequazione territoriale e la compartecipazione tra i comuni interessati ai proventi e costi conseguenti a trasformazioni o interventi di rilevanza intercomunale”. Per quanto riguarda i contenuti dei PTCP, l’articolo 17, prevede alla lettera b), “…2) la rete delle infrastrutture della mobilità, esistenti e di progetto, che rientra nelle competenze provinciali, nel rispetto degli strumenti sovraordinati, (…)3) la localizzazione delle attrezzature, degli impianti, delle infrastrutture e dei servizi di interesse provinciale esistenti e di progetto;4) la definizione degli adempimenti previsti al Titolo IV” e, alla lettera c) “2) le linee di intervento in materia di difesa del suolo, di tutela delle acque, sulla base delle caratteristiche ambientali, geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio, per quanto non regolato dai piani di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) o da specifiche disposizioni regionali; 3) i criteri per gli insediamenti produttivi a rischio di incidente rilevante di cui alle normative statali di settore; 4) la disciplina di specifica competenza del PTCP prevista al Titolo IV”. Infine, il comma 2 prevede che “Il PTCP detta la metodologia e coordina la individuazione delle aree per le attrezzature e per gli insediamenti di interesse intercomunale, stabilendo anche concreti riferimenti territoriali, nonché definisce, previa intesa istituzionale con i comuni interessati, le aree destinate ad attrezzature e servizi di rilievo provinciale”. Risulta evidente che la normativa regionale censurata omette di attribuire al PTCP: il compito di “indicare le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione di ogni sua parte” (art. 20, co. 2, lett. a), dlgs. 267/2000); il compito di “localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali comunicazioni” (si parla, infatti, solo di infrastrutture e di servizi di interesse provinciale esistenti e di progetto), né vi è riferimento alcuno alle linee di intervento in materia di consolidamento del suolo e tutela delle acque o alla individuazione delle aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali. Anche per quanto riguarda la definizione delle aree destinate ad attrezzature e servizi di interesse provinciale, la funzione del PTCP è subordinata alla “previa intesa istituzionale con i comuni interessati”. Inoltre, l’articolo 19 della legge umbra prevede che “I comuni adeguano i propri strumenti urbanistici al PTCP” (comma 1), e che “Dalla data di efficacia del PTCP approvato, il comune non può rilasciare titoli abilitativi o approvare piani attuativi che siano in contrasto con le norme immediatamente prevalenti del PTCP medesimo di cui all'articolo 17, comma 1, lettera c), punto 1)”. Da un lato, dunque, non viene attribuito alla provincia il compito di accertare la compatibilità degli strumenti urbanistici comunali con il PTCP (come previsto, invece, all’articolo 20, comma 5, del testo unico degli enti locali), dall’altro, la prevalenza del PTCP viene di fatto limitata ai soli contenuti individuati all’17, comma 1, lettera c), punto 1), con la conseguenza che non ci sono rimedi in caso di mancato adeguamento dei piani comuni al PTCP. Si rileva, infine, che quelli che la legge statale individua come contenuti fondamentali del PTCP sono attribuiti, di fatto, ai piani regolatori comunali, che però sono inidonei a svolgere una funzione di pianificazione di area vasta. L’art. 21, infatti, attribuisce al PRG-parte strutturale, il compito di individuare le diverse destinazioni del territorio (in particolare: gli elementi che costituiscono il sistema delle componenti naturali – lett. a) –; le aree instabili o a rischio – lett. b) - ; le aree agricole – lett. c) –; gli elementi del territorio di valore storico culturale – lett. e) -), nonché di individuare “le infrastrutture lineari e nodali per la mobilità ed in particolare la rete ferroviaria e viaria di interesse regionale, provinciale e comunale, nonché gli elettrodotti di alta tensione” (comma 1, lettera f) e “le principali infrastrutture lineari e nodali per la mobilità, nonché la rete escursionistica di interesse interregionale e regionale” (comma 2, lettera e). Si tratta di attribuzioni che dovrebbero essere di competenza del PTCP, per la rilevanza di interesse regionale e, addirittura, interregionale. La sovrapposizione tra i due piani emerge anche da fatto che l’art. 21, comma 2, lett. l), prevede che il PRG “definisce gli adempimenti previsti al Titolo IV”, ma la stessa funzione è attribuita anche al PTCP dall’articolo 17, comma 1, lettera b), n. 4. Di conseguenza, si estendono alle citate disposizioni dell’articolo 21 i medesimi profili di illegittimità costituzionale sopra evidenziati con riferimento agli articoli 16 (commi 4 e 5), 17 e 19.

8) L’articolo 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8, 9
L’articolo 18, commi 4, 5, 6 e 7, 8, 9 nel disciplinare il procedimento di valutazione della conformità e adeguamento delle previsioni del PTCP, nonché delle relative varianti, al PPR, prevede la convocazione da parte della Regione di una conferenza istituzionale di copianificazione alla quale partecipano le Province, ma non contempla la partecipazione al procedimento di conformazione e adeguamento al PPR degli organi ministeriali. Pertanto, si estendono alle disposizioni censurate i profili di incostituzionalità già rilevati in relazione all’art. 15 e, conseguentemente, si rileva, anche in questo caso, la violazione delle attribuzioni statali di legislazione esclusiva ex art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., mediante violazione dell’art. 145, comma 5, d.lgs. n. 42/2004.

9) L’articolo 28, comma 10, e l’articolo 56, comma 3
L’articolo 28, comma 10, attribuisce al comune, in sede di adozione del PRG, il compito di esprimere il parere di cui all’articolo 89 del d.p.r. n. 380/2001, previa determinazione della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio di cui all’articolo 2, comma 4, della l.r. Umbria 1/2015. L’articolo 56, comma 3, stabilisce che il SUAPE “acquisisce direttamente… i pareri che debbono essere resi dagli uffici comunali necessari ai fini dell’approvazione del piano attuativo compreso il parere in materia sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere con le modalità di cui all’articolo 112, comma 4, lettera d)”. Tali norme contrastano con l’articolo 89 del d.p.r. n. 380/2001, secondo cui il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare va richiesto “al competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio” (comma 1). I commi 2 e 3 del medesimo articolo 89 prevedono che il competente ufficio tecnico regionale si pronunci entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale e che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo.
Secondo consolidata giurisprudenza costituzionale (tra le tante, sentenze n. 167 del 2014; n. 300 e n. 101 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010, n. 248 del 2009, n. 182 del 2006), la disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche è riconducibile all’ambito materiale del «governo del territorio», nonché a quello relativo alla «protezione civile», per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del 2010). In entrambe le materie, di potestà legislativa concorrente, spetta allo Stato fissare i principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione. Come chiarito, da ultimo, nella sentenza n. 167/2014, l’art. 89 del testo unico dell’edilizia costituisce principio fondamentale in materia di “protezione civile”, in quanto “appare funzionale ad assicurare l’«intento unificatore della legislazione statale», palesemente orientato a soddisfare quelle imprescindibili garanzie valevoli per tutti gli strumenti urbanistici generali e particolareggiati con riguardo al rischio di calamità naturali (ex plurimis, sentenze n. 254 del 2010 e n. 182 del 2006). L’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha come suo oggetto gli strumenti urbanistici e le costruzioni nelle zone ad alto rischio sismico e come sua ratio la tutela dell’interesse generale alla sicurezza delle persone.
Ciò posto, si ritiene che l’attribuzione agli uffici regionali delle funzioni relative al rilascio di detto parere (e la previsione del silenzio rifiuto in caso di mancata risposta entro il termine), sia funzionale alle suddette esigenze di tutela dell’incolumità pubblica. Il Comune, infatti, avendo redatto il piano urbanistico, non è soggetto terzo e quindi non offre sufficienti garanzie di imparzialità nel rilascio di questo parere. Inoltre, il Comune potrebbe essere esposto a interessi configgenti, che rendono più opportuno attribuire il compito del rilascio del parere da un organo diverso. Ne’ offre sufficienti garanzie la previsione del previo parere (obbligatorio e non vincolante), della commissione disciplinata all’articolo 112. Per questi motivi, l’art. 28, comma 10, e, di conseguenza, l’articolo 56, comma 3, della legge regionale impugnata contrastano con l’articolo 89 del testo unico dell’edilizia e quindi violano l’art. 117, comma 3, della Costituzione con riferimento alla materia “protezione civile”.

10) L’articolo 32, comma 4; l’articolo 49, comma 2, lett. a); l’articolo 51, comma 6; l’articolo 79, comma 3
Gli articoli 32, co.4, lett. c); 49, co. 2, lett. a); 51, co. 6; 79, co. 3, nel consentire varianti e deroghe alle altezze massime previste dagli strumenti urbanistici senza prevedere il necessario rispetto degli standard previsti dall’articolo 8 del d.m. n. 1444/1968, viola l’art. 117, comma 3, (con riferimento ai principi fondamentali in materia di “governo del territorio”), nonché comma 2, lettera l) (con riferimento alla materia “ordinamento civile”) della Costituzione.

11) L’articolo 56, comma 14
L’articolo 56, comma 14, nel disciplinare l’adozione e l’approvazione del piano attuativo, prevede che “Il piano attuativo relativo ad interventi nelle zone sottoposte al vincolo di cui al d.lgs. 42/2004 e nelle aree o immobili di cui all’articolo 112, comma 1, è adottato previo parere della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio. Il comune trasmette alla Soprintendenza il parere della commissione unitamente agli elaborati del piano attuativo adottato, corredati del progetto delle opere di urbanizzazione e infrastrutturali previste, nonché della documentazione di cui al comma 3, dell’articolo 146, del d.lgs. 42/2004 relativa a tali opere. La Soprintendenza esprime il parere di cui all’articolo 146 del d.lgs. 42/2004 esclusivamente sulle opere di urbanizzazione e infrastrutturali, ai fini di quanto previsto all’articolo 57, comma 6, fermo restando il parere di cui allo stesso articolo 146 del d.lgs. 42/2004 da esprimere successivamente sul progetto definitivo dei singoli interventi edilizi. Nel caso di attuazione del procedimento di cui al presente comma i termini relativi al procedimento di adozione e approvazione del piano attuativo sono sospesi.
Il parere della Soprintendenza sul piano attuativo è richiesto “esclusivamente” per le opere di urbanizzazione e infrastrutturali, ai fini dell’autorizzazione paesaggistica, poiché ai sensi del citato art. 57, comma 6, “La deliberazione comunale di approvazione del piano attuativo costituisce titolo abilitativo e autorizzazione paesaggistica per la realizzazione degli allacci e delle opere di urbanizzazione previste”.
Le disposizioni in esame esibiscono due distinti profili di incostituzionalità. Da un lato, come osservato per gli artt. 15 e 18, la norma non prevede il procedimento di conformazione/adeguamento dello strumento urbanistico (piano attuativo) al PPR e, quindi, la partecipazione a tale procedimento degli organi ministeriali. Dall’altro lato, violano il disposto degli artt. 16 e 28 della legge n. 1150 del 1942, perché di fatto aboliscono il parere preventivo del soprintendente ivi previsto sugli strumenti attuativi, confondendo tale istituto (autonomo e distinto nella legge statale) con l’istituto dell’autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 del codice, che riguarda il diverso momento provvedimentale, relativo al singolo intervento, che si pone “a valle” della pianificazione attuativa. Il parere reso dal soprintendente ex artt. 16 e 28 cit. della legge urbanistica è cosa diversa e autonoma rispetto al parere vincolante espresso dallo stesso soprintendente sul singolo progetto, a livello provvedimentale (e non pianificatorio) ex art. 146 del codice (sulla perdurante vigenza di tali artt. 16 e 28 della legge urbanistica, pur dopo il codice, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 173; Id., 1 ottobre 2008, n. 4726; 5 febbraio 2010, n. 538, nonché 15 marzo 2010, n. 1491). Anche in questo caso, dunque, si evidenzia una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, poiché le norme interposte richiamate (artt. 16 e 28 della legge n. 1150 del 1942), pur se contenute nella legge urbanistica, costituiscono norme di tutela del paesaggio.

12) L’articolo 54 e articolo 215, comma 5
L’articolo 54, che disciplina il piano attuativo di iniziativa privata e mista, prevede, al comma 4, che per l’esproprio si applicano “le modalità previste dall’art. 27, comma 5, della legge 1° agosto 2002, n. 166”, in materia di Programmi di riabilitazione urbana. Detta norma prevede che “L'indennità espropriativa, posta a carico del consorzio, in deroga all'articolo 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, deve corrispondere al valore venale dei beni espropriati diminuito degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione. L'indennità può essere corrisposta anche mediante permute di altre proprietà immobiliari site nel comune”. La disposizione censurata, nel diminuire l’indennità di esproprio degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione, contrasta con gli articoli 42 e 117, comma 2, lettera l) della Costituzione. Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 2007, infatti, il legislatore, con l’articolo 2 della legge finanziaria del 2008 (legge 24 dicembre 2007 numero 244), ha previsto che l’indennità di espropriazione dei suoli edificabili deve essere commisurata al valore venale del bene, salvi i correttivi di volta in volta previsti. Per effetto delle nuove disposizioni, soltanto qualora “l’esproprio avvenga nell’ambito di iniziative di rilevante interesse economico-sociale”, l’indennità, pur restando agganciata al parametro del valore venale del bene, può essere ridotta in funzione del fine di utilità sociale che la procedura espropriativa mira a realizzare.
In relazione ai suesposti principi, si espone a censura di incostituzionalità la disposizione che prevede, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio relativa a qualsiasi intervento ablatorio compiuto in esecuzione dei piani attuativi, l’applicazione di una percentuale fissa di abbattimento, richiamando una disposizione di settore operante in materia di infrastrutture e trasporti, e dunque in uno specifico ambito coinvolgente rilevanti interessi pubblicistici. Non sono invero ravvisabili, nell’ipotesi dei piani attuativi disciplinati dall’articolo 54 della legge umbra, le finalità sociali che la Corte costituzionale ha ritenuto necessarie per prevedere una decurtazione dell’indennità di esproprio.
Analoghe censure sono formulabili con riferimento all’articolo 215, comma 5, secondo cui, in presenza di piani attuativi di iniziativa privata mista si procede a norma dell’articolo 27, comma 5, della l.n. 166/2002, con conseguente riferimento alla prevista decurtazione dell’indennità di espropriazione.

13) Gli articoli 59, comma 3 e 64, comma 1
Gli articoli 59, comma 3 e 64, comma 1 contrastano con il principio fondamentale in materia di governo del territorio contenuto all’articolo 9 del d.p.r. n. 380/2001 e pertanto violano l’articolo 117, comma 3, della Costituzione. In particolare, l’articolo 59 consente nelle aree nelle quali non siano attuate le previsioni degli strumenti urbanistici generali, anche a mezzo di piano attuativo, gli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia. Inoltre, stabilisce che detti interventi possono comportare anche la modifica della destinazione d’uso in atto in un edificio esistente, purché la nuova destinazione risulti compatibile con le previsioni dello strumento urbanistico generale. L’articolo 64, al comma 1, prevede una serie di interventi edilizi che possono essere realizzati nei centri storici in assenza di piano attuativo. Vi rientrano la manutenzione ordinaria, la manutenzione straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo, la ristrutturazione edilizia (che non comporti aumento della SUC o modifiche della sagoma e dell’area di sedime preesistenti), i cambiamenti di destinazione d’uso, gli interventi relativi alla prevenzione sismica, gli interventi di recupero dei sottotetti, con incremento dell’altezza dell’edificio e finanche l’apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, gli interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o puntuali, nonché per l’arredo urbano. Dette disposizioni si pongono in contrasto con l’articolo 9, comma 2, del testo unico dell’edilizia che, anche al fine di tutelare il territorio, ponendo limiti all’attività edilizia in assenza di pianificazione, individua gli interventi consentiti nel caso in cui non siano stati adottati gli strumenti urbanistici attuativi. La disposizione citata, che deve ritenersi un principio fondamentale in materia di “governo del territorio” (tanto che, nella prima parte del comma 1, si specifica che le leggi regionali possono individuare limiti più restrittivi), consente, in assenza di strumenti urbanistici attuativi, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di restauro e risanamento conservativo che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse, nonché gli interventi di ristrutturazione edilizia “anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo”. Ne deriva, quindi, che la normativa statale, a differenza di quella regionale, limita la possibilità di mutare la destinazione d’uso e, in ogni caso, non consente gli interventi di recupero dei sottotetti, con incremento dell’altezza dell’edificio e finanche l’apertura di finestre, lucernai, abbaini e terrazzi, né gli interventi per le infrastrutture viarie, tecnologiche, a rete o puntuali, nonché per l’arredo urbano, non essendo tali interventi riconducibili alle categorie sopra individuate.

14) L’articolo 95, comma 4
L’articolo 95, comma 4, prevede che “Gli insediamenti del PRG sulle quali sono formulate nuove previsioni residenziali o l’ampliamento di quelle esistenti non possono essere localizzate in avvicinamento agli allevamenti zootecnici suinicoli, avicoli e ittiogenici di cui all’articolo 93 o attività a rischio di incidente rilevante, situate all’interno del territorio comunale di riferimento determinando distanze inferiori a metri lineari 600. La suddetta distanza non si applica per la realizzazione di singoli edifici residenziali”. Tale formulazione, nello stabilire in modo aprioristico e generalizzato che la localizzazione dei nuovi insediamenti residenziali abbia una distanza minima di 600 metri lineari dalle attività a rischio di incidente rilevante, si pone in violazione degli standard uniformi stabiliti a livello nazionale dal decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, recante attuazione della direttiva 96/82/CE (Seveso), relativa al controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.
In particolare, l’art. 14 del D.Lgs. n. 334/99, fissa i criteri in materia di assetto del territorio e controllo dell’urbanizzazione, specificati dal D.M. 9 maggio 2001, che a sua volta stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante. Al comma 1, detta norma prevede infatti che, “per le zone interessate da stabilimenti soggetti agli obblighi di cui agli artt. 6, 7 ed 8 del decreto, siano stabiliti requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione territoriale, con riferimento alla destinazione ed alla utilizzazione dei suoli, al fine di prevenire gli incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente e in relazione alla necessità di mantenere opportune distanze di sicurezza tra gli stabilimenti e le zone residenziali per:
a) insediamenti di stabilimenti nuovi;
b) modifiche degli stabilimenti di cui all’art. 10 comma 1 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (modifiche con aggravio del rischio);
c) nuovi insediamenti o infrastrutture attorno agli stabilimenti esistenti quali, ad esempio, vie di comunicazione, luoghi frequentati dal pubblico, zone residenziali, qualora l’ubicazione o l’insediamento o l’infrastruttura possano aggravare il rischio o le conseguenze di un incidente rilevante”.
Il comma 5-bis del medesimo art. 14 dispone inoltre che “nelle zone interessate dagli stabilimenti a rischio di incidente rilevante gli enti territoriali tengono conto, nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione dell’assetto del territorio, della necessità di prevedere e mantenere opportune distanze tra gli stabilimenti e le zone residenziali, gli edifici e le zone frequentate dal pubblico, le vie di trasporto principali, le aree ricreative e le aree di particolare interesse naturale o particolarmente sensibili dal punto di vista naturale (…)”.
A tal fine il D.M. 9 maggio 2001 prevede che le autorità responsabili della gestione del territorio recepiscono negli strumenti di regolamentazione territoriale ed urbanistica e negli atti autorizzativi dell’attività edilizia, nelle aree interessate dagli effetti degli scenari incidentali ipotizzabili in relazione alla presenza di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, le informazioni fornite dai gestori sulle aree di danno e le valutazioni di compatibilità degli interventi fornite dall’autorità tecnica competente.
In particolare, nei casi di cui al predetto art. 14, comma 1, del D.Lgs. n. 334/99, la valutazione della compatibilità territoriale ed ambientale degli interventi edilizi è effettuata, secondo i criteri di cui all’allegato al decreto ministeriale, tramite una zonizzazione delle aree circostanti gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante, che indica le categorie territoriali compatibili con le aree di danno derivanti dalle analisi di rischio effettuate.
Non appare, pertanto, legittimo il riferimento regionale ad una fascia minima di rispetto di 600 metri lineari, fissata in modo aprioristico e generalizzato.
Sull’argomento, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 248 del 16 luglio 2009, in materia di incidenti rilevanti, ha stabilito che le norme regionali devono in ogni caso collocarsi “nell’ambito delimitato dalla normativa statale e, quindi, dagli specifici requisiti adottati con il d.m. 9 maggio 2001, nonché dei requisiti minimi di sicurezza fissati nell’ambito della pianificazione dell’uso del territorio nei comuni ove sono presenti stabilimenti pericolosi, soggetti agli obblighi di cui agli artt. 6, 7 e 8 del d.lgs. n. 334 del 1999”.
Si tratta, come accennato, di normativa che trova fondamento nella disciplina comunitaria recata dalla direttiva 96/82/CE, ed in particolare nell’art. 12 che stabilisce misure in materia di controllo dell’urbanizzazione (cfr. ora art. 13, Dir. 04/07/2012, n. 2012/18/UE).
Ponendosi in contrasto con la normativa appena richiamata, l’articolo 95, comma 4, della legge regionale n. 1/2015 viola l’art. 117, comma 1 e 117, comma 2, lettera s) della Costituzione.

15) L’articolo 118, comma 1, lettera e)
L’articolo 118, comma 1, lettera e) annovera tra gli interventi di attività edilizia libera, eseguibili senza alcun titolo abilitativo, “le opere interne alle unità immobiliari, di cui all’articolo 7, comma 1, lettera g)”. Trattasi delle opere “concernenti l’eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscano elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incrementi degli standard urbanistici, nonché concernenti la realizzazione ed integrazione di servizi igienicosanitari e tecnologici, da realizzare nel rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico sanitarie, sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti”. Tale previsione contrasta con l’articolo 6, comma 2, lettera a) e comma 4 del testo unico dell’edilizia, che assoggetta a comunicazione di inizio lavori c.d. “asseverata” “gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio”. Poiché il regime dei titoli abilitativi costituisce un principio generale in materia di “governo del territorio”, la disposizione censurata viola l’articolo 117, comma 3, della Costituzione.

16) L’articolo 118, comma 1, lettera i)
L’articolo 118, comma 1, lettera i) annovera tra gli interventi di attività edilizia libera, eseguibili senza alcun titolo abilitativo “gli interventi relativi all’istallazione di impianti solari termici senza serbatoio di accumulo esterno e fotovoltaici realizzati sugli edifici o collocati a terra al servizio degli edifici per l’autoconsumo da realizzare al di fuori degli insediamenti di cui all’articolo 92 delle norme regolamentari Titolo II, Capo I” ossia al di fuori delle aree di particolare interesse agricolo. La realizzazione di detti interventi non è subordinata ad alcuna forma di comunicazione preventiva all’amministrazione comunale, posto che gli interventi assoggettati a comunicazione sono elencati al successivo comma 2.
La disposizione si pone in contrasto con la normativa statale di riferimento.
L’Articolo 6, comma 2, del testo unico dell’edilizia (d.p.r. n. 380/2001), infatti, prevede che sono realizzabili “previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale” possono essere istallati “i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio di edifici, da realizzare al di fuori della zona A” di cui al d.m. n. 1444/1968. Occorre precisare che tale norma è stata così modificata dall’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 28/2011 (attuativo della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’energia da fonti rinnovabili), che ha espunto dalla norma il riferimento agli impianti “termici, senza serbatoio di accumulo esterno”. Il medesimo articolo 7, al comma 2, ha previsto che sono assoggettati a previa comunicazione (perché riconducibili agli interventi di manutenzione ordinaria di cui all’articolo 6, comma 2, lettera a), del testo unico dell’edilizia), “gli interventi di istallazione degli impianti solari termici (…), qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) gli impianti siano realizzati su edifici esistenti o su loro pertinenze, ivi inclusi i rivestimenti delle pareti verticali esterni agli edifici; b) gli impianti siano realizzati al di fuori della zona A” di cui al d.m. n. 1444/1968. Anche per l’istallazione degli impianti solari termici indicati nel comma 1 del medesimo articolo 7, si richiede, attraverso il rinvio all’articolo 11, comma 3, d.lgs. n. 115/2008, una comunicazione preventiva al Comune. Inoltre, l’art. 6, comma 11, consente alle Regioni di prevedere la Comunicazione per gli impianti a fonte rinnovabile, indipendentemente dalla fonte rinnovabile di alimentazione e dal tipo di energia che producono (elettrica o termica), a condizione che tali impianti abbiano una potenza non superiore a 50 kw. Infine, l’articolo 7, comma 5, del d.lgs. n. 28/2011 prevede che gli impianti di produzione di energia termica da fonti rinnovabili diversi da quelli indicati nei commi precedenti siano soggetti a comunicazione secondo quanto previsto dall’articolo 6 del d.p.r. n. 380/2001.
Con le Linee guida per l’autorizzazione degli impianti da fonti rinnovabili approvate con d.m. 10 settembre 2010, par. 11, è stato specificato che “La locuzione «installazione di pannelli solari fotovoltaici a servizio degli edifici», di cui all'articolo 6, comma 1, lettera d) del D.P.R. n. 380 del 2001, è riferita a quegli interventi in cui gli impianti sono realizzati su edifici esistenti o su loro pertinenze ed hanno una capacità di generazione compatibile con il regime di scambio sul posto” (11.8.) e che sono stati precisati i contenuti della Comunicazione. In particolare, il par. 11.9 prevede che “Nel caso di interventi di installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui all’articolo 6, comma 2, lettere a) e d), del D.P.R. n. 380 del 2001, alla Comunicazione ivi prevista si allegano:
a) le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore;
b) limitatamente agli interventi di cui alla lettera a) del medesimo comma 2, i dati identificativi dell'impresa alla quale intende affidare la realizzazione dei lavori e una relazione tecnica provvista di data certa e corredata degli opportuni elaborati progettuali, a firma di un tecnico abilitato, il quale dichiari di non avere rapporti di dipendenza con l'impresa né con il committente e che asseveri, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti e che per essi la normativa statale e regionale non prevede il rilascio di un titolo abilitativo…”.
Infine, occorre ricordare che in data 18 dicembre 2014, è stato sottoscritto in Conferenza unificata l’accordo n. 157, concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione della Comunicazione di inizio lavori (CIL) e della Comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di attività edilizia libera. L’art. 1, comma 2, di detto accordo, peraltro, chiarisce che “i moduli unificati e standardizzati costituiscono livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e assicurano il coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale”.
Alla luce del quadro normativo statale appena descritto, la disposizione censurata appare viziata da illegittimità costituzionale sotto diversi profili.
In primo luogo perché, non prevedendo la comunicazione di inizio lavori in relazione ad interventi per i quali detto titolo è previsto dalla disciplina statale, si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di governo del territorio (art. 6, comma 2, d.p.r. n. 380/2001), e dunque viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione.
In secondo luogo, la disposizione si pone in contrasto con l’articolo 117, comma 3, della Costituzione, in riferimento alla materia concorrente “produzione di energia”. Come chiarito dalla Corte costituzionale, infatti «la normativa del d.lgs. n. 28/2011 “è espressione della competenza statale in materia di energia, poiché detta il regime abilitativo per gli impianti non assoggettati all’autorizzazione unica, regime da applicarsi su tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 272/2012)» (così nella sentenza n. 11/2014, punto 5.2 della parte “in diritto”). Le “linee guida” adottate il 10 settembre 2010, inoltre, assumono carattere vincolante per il legislatore regionale, in quanto “costituiscono, in un ambito esclusivamente tecnico, il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa” (cfr. C. Cost. 11/2014, punto 6.1; nonché C. Cost., sent. n. 275/2011). Pertanto, la regione non può estendere il regime semplificato, consistente nella totale assenza di comunicazioni al comune, ad interventi per i quali la legislazione statale richiede una comunicazione di inizio lavori con particolari caratteristiche.

17) L’art. 118, comma 2, lettera e)
L’art. 118, comma 2, lettera e) assoggetta a comunicazione di inizio lavori “le modifiche interne di carattere edilizio, compatibili con le opere di cui al presente articolo, dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, ovvero la modifica della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio di impresa, con l'esclusione della destinazione residenziale”. Tale disposizione si pone in contrasto con l’articolo 6, comma 2, lett. e)-bis e comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, e dunque viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione (in riferimento alla materia “governo del territorio”). Le disposizioni statali appena richiamate, infatti, prevedono che siano assoggettati a comunicazione di inizio lavori asseverata “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa”. Qualora le modifiche riguardano parti strutturali, dunque, è necessario il titolo abilitativo della scia, non essendo sufficiente la comunicazione di inizio lavori, ancorché asseverata.
18) L’art. 118, comma 3, lettera e) e 140, comma 12
L’art. 118, comma 3, lettera e) include tra i contenuti della comunicazione di inizio lavori “una relazione tecnica corredata degli opportuni elaborati progettuali, a firma di un tecnico abilitato il quale assevera, sotto la propria responsabilità, il rispetto delle norme di sicurezza, di quelle igienico-sanitarie sul dimensionamento dei vani e sui rapporti aeroilluminanti, il rispetto delle norme in materia di dotazioni territoriali e funzionali minime, nonché per gli aspetti di compatibilità previsti dall'articolo 127”. Tale norma contrasta con l’articolo 6, comma 4, del testo unico dell’edilizia, come modificato dal d.l. n. 133 del 2014, secondo cui “…l'interessato trasmette all'amministrazione comunale l'elaborato progettuale e la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesta, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici approvati e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché che sono compatibili con la normativa in materia sismica e con quella sul rendimento energetico nell'edilizia e che non vi è interessamento delle parti strutturali dell'edificio; la comunicazione contiene, altresì, i dati identificativi dell'impresa alla quale si intende affidare la realizzazione dei lavori”. Le modifiche apportate nel 2014 al suddetto articolo 6 hanno eliminato, con finalità di semplificazione, l’obbligo di presentare la relazione tecnica, limitando gli oneri amministrativi per il privato alla presentazione degli elaborati progettuali. La norma regionale, dunque, nella parte in cui continua a prevedere l’obbligo di presentare la relazione tecnica, viola l’art. 117, comma 2, lett. m), in riferimento ai livelli essenziali delle prestazioni, cui vanno ricondotte le disposizioni in materia di semplificazione degli oneri amministrativi. Questa misura di semplificazione, infatti, è finalizzata a ridurre gli oneri a carico dell’interessato nella presentazione della comunicazione e, deve ritenersi, deve essere applicata uniformemente su tutto il territorio nazionale (con specifico riferimento alla disciplina della SCIA cfr. C. Cost., n. 164/2012, punti 8-9). In via consequenziale, è da ritenersi illegittimo anche l’articolo 140, comma 12, che sanziona l’inosservanza dell’obbligo di presentare la relazione tecnica con una sanzione pecuniaria di mille euro. Tale ultima disposizione è da ritenersi illegittima anche nella parte in cui, ponendosi in contrasto con l’articolo 6, comma 7, del d.p.r. n. 380/2001, non prevede che la sanzione per omessa comunicazione di inizio lavori sia ridotta di due terzi quando presentata spontaneamente prima della conclusione dei lavori. La decurtazione della sanzione prevista dalla norma statale da ultimo richiamata è finalizzata ad incentivare l’adempimento spontaneo dell’obbligo di comunicazione al comune, anche se tardiva. L’aver soppresso questa misura premiale, oltre a contrastare con i principi di uguaglianza e buon andamento di cui agli articoli 3 e 97 della Costituzione, non garantisce il raggiungimento degli obiettivi previsti dall’art. 6 del testo unico dell’edilizia e quindi viola un principio fondamentale in materia di “governo del territorio”.

19) L’articolo 124
L’art. 124, che individua gli interventi realizzabili mediante “SCIA obbligatoria”, contrasta con l’articolo 22 del d.p.r. n. 380/2001 e quindi viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione. La normativa statale, infatti, al comma 3, prevede che “In alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività: “a) gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c); b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443 , il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall'atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate; c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche”. Al comma 5 precisa che “Le regioni possono individuare con legge gli altri interventi soggetti a denuncia di inizio attività, diversi da quelli di cui al comma 3, assoggettati al contributo di costruzione definendo criteri e parametri per la relativa determinazione” e, infine, al comma 7 chiarisce che “E' comunque salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1 e 2, senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all'articolo 16, salvo quanto previsto dal secondo periodo del comma 5…”. La disposizione regionale censurata contrasta con i principi fondamentali in materia di governo del territorio contenuti nelle disposizioni statali appena riportate sotto diversi profili.
In primo luogo, estende il modulo procedimentale della SCIA ad interventi che, invece, la normativa statale ha assoggettato a Denuncia di inizio attività, per evidenti finalità di tutela del territorio (trattandosi di interventi più gravosi, infatti, non è stato ritenuto opportuno consentire l’avvio dei lavori contestualmente alla presentazione dell’istanza). In secondo luogo, perché configura questa SCIA come “obbligatoria”, mentre sia il comma 3 che il comma 7 dell’articolo 22 fanno salva la possibilità dell’interessato di optare per il provvedimento espresso, rinunciando al modulo procedimentale semplificato.

19.1) L’art. 124, comma 1, lettera g)
L’articolo 124, comma 1, lett. g), nella parte in cui assoggetta a SCIA la realizzazione di pozzi adibiti ad uso non domestico, contrasta con la disciplina vigente in materia di realizzazione di progetti concernenti opere idrauliche, nonché in materia di derivazione e utilizzazione delle acque pubbliche.
Dal combinato disposto degli articoli 93, comma 1 (al quale rinvia l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 152/2006), e 95, comma 1, R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, “Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici” infatti, si evince che, mentre per i pozzi ad uso domestico il proprietario di un fondo può estrarre ed utilizzare liberamente - nei limiti e con le cautele prescritte dalla legge - le acque sotterranee del medesimo fondo (l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 152/2006 richiede che “L'utilizzazione delle acque sotterranee per gli usi domestici…non comprometta l'equilibrio del bilancio idrico di cui all'articolo 145 del presente decreto”); lo scavo dei pozzi ad uso non domestico, nelle aree sottoposte a tutela, è sottoposto ad autorizzazione, la cui domanda va corredata con il piano di massima dell’estrazione ed con l’indicazione dell’utilizzazione prevista.
L’art. 162, comma 2, D.Lgs. 152/2006, inoltre, prevede che “Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, le regioni e le province autonome, nell'ambito delle rispettive competenze, assicurano la pubblicità dei progetti concernenti opere idrauliche che comportano (…) la perforazione di pozzi. A tal fine, le amministrazioni competenti curano la pubblicazione delle domande di concessione, contestualmente all'avvio del procedimento, oltre che nelle forme previste dall'articolo 7 del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque sugli impianti elettrici, approvato con regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (…)”.
Pertanto, assoggettare la realizzazione di pozzi adibiti ad uso non domestico al regime di SCIA, senza far salvi i comprensori sottoposti a tutela, costituisce violazione delle competenze statali in materia di tutela e salvaguardia delle risorse idriche, riconducibili alla materia di cui all’articolo 117, comma 2, lett. s), Cost.
Inoltre, tale disposizione regionale, prevedendo che siano assoggettati a SCIA i pozzi non domestici in via generale e senza altre specificazioni, rappresenta una illegittima esclusione dal campo di applicazione della disciplina in materia di VIA. L’art. 20, D.Lgs. n. 152/06, sottopone a verifica di assoggettabilità a VIA i progetti di “derivazione di acque superficiali ed opere connesse che prevedano derivazioni superiori a 200 litri al secondo o di acque sotterranee che prevedano derivazioni superiori a 50 litri al secondo, nonché le trivellazioni finalizzate alla ricerca per derivazioni di acque sotterranee superiori a 50 litri al secondo;” (Allegato IV alla Parte Seconda del medesimo decreto, punto 7, lettera d).
Alla luce delle precedenti considerazioni, l’articolo 124, comma 1, lett. g), nella parte in cui estende illegittimamente alla procedura di SCIA anche i pozzi non domestici, invade la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, presentando profili di illegittimità costituzionale in relazione all’articolo 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione, per violazione delle norme interposte di cui agli articoli 93 e 95 del R.D. 1775/1933 e l’articolo 162 del D.Lgs. 152/2006, nonché delle su richiamate norme statali in materia di VIA.

20) L’articolo 140, comma 11
L’articolo 140, comma 11 contrasta con l’articolo 117, comma 2), lettera e) della Costituzione (in riferimento alla materia “tutela della concorrenza”), nella parte in cui prevede una causa di esclusione rispetto alla partecipazione a gare, per un periodo determinato di tempo e a seguito dell’iscrizione dell’impresa inadempiente in un apposito elenco. Tale previsione, non contemplata nell’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006, infatti, è incompatibile con la tipicità delle cause di esclusione, ai sensi dell’articolo 46 del decreto legislativo n. 163/2006. La giurisprudenza amministrativa ha avuto più volte modo di affermare che la verifica in merito alle dichiarazioni sulla regolarità contributiva rientra nei poteri della stazione appaltante, riconosciuti come compatibili dalla Corte di Giustizia europea, e non ha quindi carattere di esclusione automatica. Essa deve essere dunque effettuata con riferimento alla singola gara, e a seguito di una verifica in concreto, che non può estendersi a ulteriori gare in un periodo di tempo astrattamente determinato.

21) L’articolo 141, comma 2
L’articolo 141, comma 2, che disciplina la vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, si pone in contrasto con l’articolo 27, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, e quindi con un principio fondamentale in materia di governo del territorio ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, sotto due diversi profili. In primo luogo, la prima parte del comma 2, nell’individuare il presupposto dell’adozione delle misure di vigilanza nella realizzazione di opere in assenza di titolo “su aree assoggettate, da leggi statali, regionali, da altre norme urbanistiche vigenti a vincolo di inedificabilità, o a vincoli preordinati all’esproprio..”, omette di prevedere la vigilanza sui vincoli posti da norme urbanistiche adottate, ma non ancora vigenti. In questo modo, si comprime arbitrariamente l’ambito della vigilanza individuato dalle disposizioni statali a tutela di strumenti urbanistici che sono ancora in corso di formazione.
Sotto un diverso profilo, la disposizione regionale, a differenza di quella statale, subordina l’adozione del provvedimento di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi in caso di accertamento dell’abuso, ad un procedimento amministrativo complesso che viene avviato con l’ordine di sospensione dei lavori e che prevede la partecipazione dell’interessato e delle altre amministrazioni eventualmente coinvolte. Soltanto qualora le opere interessino beni assoggettati a vincolo il provvedimento di demolizione viene subito disposto. Tale disposizione contrasta con un principio fondamentale in materia di governo del territorio contenuto nella legislazione statale, al citato art. 27, e finalizzato alla massima repressione degli abusi edilizi.

22) L’articolo 142, comma 1
L’articolo 142, comma 1, nel disciplinare la vigilanza sulla attività urbanistico-edilizia, individuando i soggetti responsabili, contrasta con l’articolo 29 del testo unico dell’edilizia di cui al D.P.R. n. 380/2001, e quindi viola l’articolo 117, comma 2, lettera l) (con riferimento alla materia “ordinamento penale”), nonché l’articolo 117, comma 3 (in riferimento alla materia “governo del territorio”), nei limiti e per i motivi di seguito indicati. La norma censurata inserisce il proprietario tra i soggetti responsabili, diversamente da quanto previsto dall’articolo 29 del testo unico, che non contempla il proprietario tra i soggetti tenuti a garantire la conformità delle opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di piano, sulla base del principio per cui il proprietario, non autore dell’abuso e non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell’abuso edilizio stesso; sono invece soggetti responsabili il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore, nonché il direttore dei lavori, limitatamente al rispetto per le opere da lui dirette delle prescrizioni e delle modalità esecutive fissate dal permesso di costruire.

23) Gli articoli 147 e 155 e 118, comma 2, lettera h )
Gli articoli 147 e 155 disciplinano i mutamenti di destinazione d’uso.
Il combinato disposto dell’articolo 118, comma 2, lett. h) e dell’articolo 155, comma 4, considera il mutamento della destinazione d’uso nell’ambito delle tre categorie elencate al comma 3 dell’articolo 155 - a) residenziale; b) produttiva (compresa quella agricola); c) attività di servizi come definita all’articolo 7, comma 1, lett. L) – come attività edilizia libera soggetta a comunicazione di inizio lavori asseverata. Al di fuori di queste ipotesi, il titolo richiesto dal comma 4 dell’art. 155 è “la SCIA nel caso di modifica della destinazione d'uso o per la realizzazione di attività agrituristiche o di attività connesse all'attività agricola, realizzate senza opere edilizie o nel caso in cui la modifica sia contestuale alle opere di cui all'articolo 118, comma 1” (lettera a), ovvero “il permesso di costruire o la SCIA, in relazione all'intervento edilizio da effettuare con opere, al quale è connessa la modifica della destinazione d'uso” (lettera b).
Il comma 5 dell’articolo 155 prevede che non costituisce modifica di destinazione d’uso “La realizzazione di attività di tipo agrituristico, o di attività connesse all'attività agricola o le attività di vendita al dettaglio dei prodotti dell'impresa agricola in zona agricola, attraverso il recupero di edifici esistenti” e che “i relativi interventi sono soggetti al titolo abilitativo previsto per l'intervento edilizio al quale è connessa tale realizzazione”.
Le disposizioni appena richiamate contrastano con la normativa statale di riferimento, che, da un lato, assoggetta a SCIA il mutamento di destinazione d’uso ad di fuori dei centri storici (combinato disposto degli artt. 6, 10 e 22 del testo unico dell’edilizia), dall’altro individua in modo più ampio la categoria dei mutamenti di destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti.
L’articolo 23-ter del testo unico dell’edilizia, introdotto con il d.l. n. 133/2014, infatti, prevede cinque diverse categorie funzionali, stabilendo che il passaggio tra le varie categorie costituisce mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante. La categoria prevista all’art. 155, lettera c), della legge regionale è troppo ampia (vi rientrano attività a carattere socio-santiario, direzionale, commerciali, di somministrazione, turistico-produttive, ricreative, sportive e culturali) ed è atta ad includere più categorie statali, in contrasto con l’art. 23-ter, che riconduce a tre categorie diverse (turistiche-ricettive, quelle produttive e direzionali, quelle commerciali) le attività che la legge umbra racchiude alla lettera c).
La differenza nella definizione del mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante e nel titolo abilitativo richiesto incide sul regime sanzionatorio previsto dalla legge statale e da quella regionale.
L’articolo 147 della legge regionale stabilisce, al comma 1, le sanzioni comminate in caso di mutamenti in assenza del titolo abilitativo previsto dall’articolo 155, comma 4. Le sanzioni vanno da euro trecento a euro tremila, in rapporto alla superficie interessata dall'abuso, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso risulti conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera a). In questo caso, il comma 2 prevede che “Contestualmente all'applicazione della sanzione … il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale dispone sempre il pagamento del contributo di costruzione di cui agli articoli 130, 131 e 132… valido anche ai fini dell'eventuale accertamento di conformità ai sensi dell'articolo 154, comma 4... In caso di mancata ottemperanza da parte dei responsabili dell'abuso nei termini stabiliti il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale dispone il ripristino dello stato preesistente”.
Nel caso in cui il mutamento della destinazione d'uso non risulti conforme alle norme urbanistiche ed edilizie (lettera b), invece, le sanzioni sono le seguenti; “1) euro cinquanta per ogni metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con destinazione finale residenziale, ridotta ad euro venti a metro quadro per gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario; 2) euro cento a metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con utilizzazione finale commerciale, direzionale, o servizi; 3) euro cinquanta per ogni metro quadro di superficie utile di calpestio per gli immobili con utilizzazione finale industriale, artigianale o agricola”. In questo caso, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale ordina, contestualmente alla irrogazione della sanzione, la cessazione dell'utilizzazione abusiva dell'immobile, assegnando un termine non inferiore a trenta giorni e non superiore a novanta giorni decorso il quale si provvede d'ufficio in danno dei responsabili dell'abuso.
Il comma 4, infine, dispone che la sanzione di cui al presente articolo, nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso sia effettuato con gli interventi abusivi di cui agli articoli 144, 145 e 146, si cumula con le sanzioni pecuniarie previste da detti articoli.
La disciplina regionale appena descritta si pone sotto più profili in contrasto con i principi fondamentali di governo del territorio dettati dallo Stato in attuazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione. Inoltre, incide sull’ambito di applicazione delle sanzioni amministrative, civili e penali previste dal d.p.r. n. 380/2001, invadendo la potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile e penale (art. 117, comma 2, lettera l), e in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
Nel dettaglio:
- laddove le norme statali richiedono il permesso di costruire o la DIA alternativa per il mutamento della destinazione d’uso (art. 10, co. 1, lett. c) del testo unico dell’edilizia, mutamento di destinazione d’uso nei centri storici), la normativa regionale contrasta con gli art. 33, 36 e 44 del testo unico;
- laddove le norme statali subordinano il mutamento di destinazione d’uso a SCIA, invece, contrastano con l’art. 37 del testo unico.

24) L’articolo 151, comma 2 e comma 4
L’articolo 151, comma 2 prevede che i lavori di demolizione di opere abusive svolti a cura del comune “laddove non eseguibili direttamente dal comune o dalla provincia, sono affidati, anche a trattativa privata ove ne sussistano i presupposti, ad imprese tecnicamente e finanziariamente idonee”. Tale disposizione si pone in contrasto con gli articoli 56 e 57 del Codice degli appalti di cui al d.lgs. n. 163/2006, che impongono il ricorso a procedure negoziali aperte, salvo che in casi limitati dettagliatamente individuati dagli stessi articoli. La norma regionale, a differenza della previsione statale, si limita a prevedere che il ricorso a procedure negoziali aperte “è in ogni caso ammesso” (comma 4). Dunque, questo strumento, che per il legislatore statale è la regola generale, sembra diventare residuale nella normativa regionale, con potenziali effetti anticoncorrenziali. Pertanto, la disposizione impugnata contrasta con l’articolo 117, comma 2, lettera e) della Costituzione (in riferimento alla materia “tutela della concorrenza”).

25) L’articolo 154, comma 1 e comma 3
L’articolo 154, comma 1 prevede che “In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, con variazioni essenziali o in difformità da esso, ovvero in assenza di SCIA o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 143, comma 3, 144, comma 1, 145, comma 1, 146, comma 1 e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il titolo a sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda e non in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati. Ai fini di cui al presente comma è consentito l'adeguamento di eventuali piani attuativi, purché tale adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato. Per le violazioni di cui all'articolo 147 il titolo abilitativo a sanatoria è rilasciato se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda”. I presupposti previsti da tale disposizione per l’accertamento in conformità – e conseguentemente per il rilascio del permesso in sanatoria – non rispettano il principio fondamentale in materia di governo del territorio previsto agli articoli 36 e 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, che subordinano il rilascio del titolo in sanatoria alla conformità degli immobili alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione dell’istanza (“c.d. “doppia conformità”, sul punto C. Cost. n. 101/2013). In particolare, la norma non è conforme al richiamato principio nella parte in cui stabilisce “l’adeguamento di eventuali piani attuativi, purché tale adeguamento risulti conforme allo strumento urbanistico generale vigente e non in contrasto con quello adottato” e nella parte in cui esclude la doppia conformità per le violazioni di cui all'articolo 147 (mutamento di destinazione d’uso in assenza di titolo abilitativo). La disposizione censurata, dunque, contrasta con l’art. 117, comma 3, della Costituzione e con l’articolo 117, comma 2, della Costituzione, in riferimento alla materia “ordinamento penale”. Inoltre, contrasta con i principi fondamentali in materia di governo del territorio il comma 3 del medesimo articolo 154, che, nel richiamare le procedure previste dall’articolo 123 per il permesso in sanatoria, estende anche a questa fattispecie l’applicazione del silenzio assenso, in espresso contrasto con l’art. 36, comma 3, del d.p.r. n. 380 del 2001, secondo cui “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.

26) L’articolo 206, comma 1
L’articolo 206, comma 1, nella parte in cui prevede che “Per i lavori di cui all'articolo 201, comma 1 , nelle Zone 1, 2 e 3 ad alta, media e bassa sismicità, il deposito del certificato di collaudo statico tiene luogo anche del certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche per le costruzioni previsto all' articolo 62 del D.P.R. 380/2001. Negli interventi in cui il certificato di collaudo non è richiesto, la rispondenza è attestata dal direttore dei lavori che provvede al relativo deposito presso la provincia competente” contrasta con l’art. 62 del d.p.r. n. 380/2001, secondo cui “Il rilascio della licenza d'uso per gli edifici costruiti in cemento armato e dei certificati di agibilità da parte dei comuni è condizionato all'esibizione di un certificato da rilasciarsi dall'ufficio tecnico della regione, che attesti la perfetta rispondenza dell'opera eseguita alle norme del capo quarto”. La disposizione regionale dunque prevede che per tutti i lavori di nuova costruzione, di ampliamento e di sopraelevazione e i lavori di manutenzione straordinaria, di restauro, di risanamento e di ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente che compromettono la sicurezza statica della costruzione o riguardano le strutture o alterano l'entità e/o la distribuzione dei carichi, effettuati nelle zone ad alta, media e bassa sismicità, sia sufficiente il certificato di collaudo statico o una attestazione del direttore dei lavori.
La previsione contenuta all’articolo 62 del d.p.r. n. 380/2001, che richiede il rilascio del certificato di rispondenza dell’opera alle norme tecniche per le costruzioni, essendo finalizzata a garantire la sicurezza delle costruzioni in zone sismiche, risponda ad un’esigenza unitaria di sicurezza, non derogabile dal legislatore regionale. D’altronde, con riferimento al rischio sismico, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di rilevare che “L’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui, ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali”, pertanto, il coinvolgimento di interessi primari della collettività limita la possibilità del legislatore regionale di introdurre misure di semplificazione, quale quella contenuta dalla disposizione censurata (cfr. sentenza 182/2006). Per le ragioni suesposte, l’art. 206, comma 1 contrasta con l’art. 117, co. 3 della Costituzione (nelle materie “governo del territorio” e “protezione civile”) e con la disposizione interposta di cui all’art. 62 del d.p.r. n. 380/2001, e deve essere pertanto essere impugnato dinanzi alla Corte Costituzionale ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

27) L’articolo 215, comma 12
L’articolo 215, al comma 12, prevede che “Qualora l'autorità espropriante realizzi l'opera pubblica o di pubblica utilità tramite affidamento a concessionario di lavori pubblici o a contraente generale, l'autorità medesima può delegare con proprio provvedimento assunto secondo le norme che disciplinano il proprio funzionamento, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi al concessionario ovvero al contraente generale, determinando l'ambito della delega nell'atto di concessione o di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo. I soggetti privati delegati possono avvalersi a tal fine di società di servizi”. L’ultima parte di tale previsione contrasta con l’articolo 6, comma 8, del d.p.r. n. 327/2001, secondo cui “8. Se l'opera pubblica o di pubblica utilità va realizzata da un concessionario o contraente generale, l'amministrazione titolare del potere espropriativo può delegare, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi, determinando chiaramente l'ambito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo. A questo scopo i soggetti privati cui sono attribuiti per legge o per delega poteri espropriativi, possono avvalersi di società controllata. I soggetti privati possono altresì avvalersi di società di servizi ai fini delle attività preparatorie”. La legislazione statale, a differenza di quella regionale, consente di avvalersi, per il procedimento espropriativo, di società controllate, non di società di servizi. Il ricorso a queste ultime, infatti, può avvenire limitatamente “ai fini delle attività preparatorie”. Ciò in quanto il procedimento di esproprio comporta l’esercizio di poteri di ordine pubblicistico che non possono essere delegati ad un soggetto che non sia posto sotto il controllo pubblico. Nel disporre diversamente, la disposizione in esame si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di governo del territorio – cui deve essere ricondotto l’art. 6, comma 8, del d.p.r. n. 327/2001 – e quindi viola l’art. 117, comma 3, della Costituzione.

28) L’articolo 243, comma 1
L’art. 243, al comma 1, prevede che “La disciplina concernente le distanze, le dotazioni territoriali e funzionali minime, nonché quella relativa alle situazioni insediative del PRG, di cui alle norme regolamentari Titolo I, Capo I, Sezione V e al Titolo II, Capo I, Sezioni II, III e IV, sostituisce quella del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (…), in materia, rispettivamente, di distanze, di standard e di zone territoriali omogenee, anche ai sensi dell' articolo 2-bis del D.P.R. 380/2001”. La norma impugnata da un lato “disapplica” le disposizioni del d.m. 1444/1968, comprese quelle in materia di distanze, dall’altro omette di richiamare le disposizioni in materia contenute nel codice civile, rinviando ad una norma di carattere regolamentare (che, peraltro, non richiama le relative disposizioni del codice civile). Al riguardo, occorre ricordare che le norme in materia di distanze contenute all’art. 9 del d.m. 1444/1968 hanno, per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, carattere inderogabile e rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”. La Corte Costituzionale ha più volte ritenuto - da ultimo nella sentenza n. 6/2013 - che l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, è dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005, si veda anche la sent. n. 134/2014). Per queste ragioni, la disposizione impugnata viola l’art. 117, comma 2, lettera l) e 117, comma 3 (con riferimento al “governo del territorio”) della Costituzione.

29) L’articolo 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, 202 e 208
L’articolo 250, comma 1, lettere a), b) e c), in combinato disposto con gli articoli 201, commi 2, 3 e 4; 202, comma 1, e 208, commi 2 e 3, sostanzialmente consente alla Giunta Regionale, con proprio atto, di sottrarre tipologie di interventi edilizi dall’applicazione della normativa sismica e dell’autorizzazione sismica di cui agli articoli 62, 63, 65, 82, 83 e 88 del testo unico dell’edilizia. La Corte costituzionale ha chiarito che la disciplina in materia di vigilanza sugli interventi edilizi in zona sismica è riconducibile ai principi fondamentali in materia di “protezione civile” (si veda C. Cost. n. 300/2013, spec. punto 4), pertanto, le disposizioni censurate violano l’art. 117, comma 3 della Costituzione.
In particolare, le categorie di “interventi privi di rilevanza ai fini della pubblica incolumità” e “di minore rilevanza ai fini della pubblica incolumità”, a cui fa riferimento la disposizione regionale impugnata, non sono conosciuta dalla normativa statale: non se ne fa menzione nel citato d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), né nella normativa tecnica, contenuta nel decreto del Ministro delle infrastrutture 14 gennaio 2008. Dunque, la legislazione regionale si discosta illegittimamente dalla normativa statale rilevante, perché introduce una categoria di interventi edilizi ignota alla legislazione statale e la esclude dalla applicazione di norme improntate al principio fondamentale della vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico (cfr. anche sentenza n. 182 del 2006 e sent. n. 101 del 2013), con l’effetto sostanziale di sottrarre indebitamente determinati interventi edilizi ad ogni forma di vigilanza pubblica.

30) L’articolo 258 e l’articolo 264, comma 13
L’articolo 258 detta norme speciali per le aree terremotate e disciplina gli edifici, non conformi, in tutto o in parte, agli strumenti urbanistici, realizzati, prima del 31 dicembre 2000 da privati o da altri enti pubblici, anche con il contributo pubblico, in sostituzione delle abitazioni principali, delle attività produttive, dei servizi e dei relativi accessori, che, per effetto della crisi sismica dell’anno 1997 sono stati oggetto di sgombero totale. La norma prevede, al comma 1, che i comuni effettuino un censimento di questi edifici e, al comma 2, ne prevede la cessione ai conduttori degli immobili. Attribuisce dunque ai comuni (comma 3) il compito di predisporre un’apposita variante che, limitatamente agli edifici per i quali è stata presentata domanda di acquisto, preveda la realizzazione di un’adeguata urbanizzazione e di un razionale inserimento territoriale ed ambientale, prevedendo le modalità di adeguamento edilizio, tipologico ed estetico degli edifici interessati, nonché gli elementi di arredo urbano necessari. Tale variante deve confermare le volumetrie e le altezze degli edifici interessati “con eventuale possibilità di modifica entro il limite del dieci per cento; ulteriori modifiche delle previsioni possono essere apportate decorsi cinque anni dalla approvazione della variante” (comma 6). Per gli edifici “non raccordabili con gli insediamenti esistenti”, il comma 5 prevede la possibilità di individuazione “come ambito agricolo per la riqualificazione degli edifici medesimi, previa costituzione di un vincolo di destinazione d’uso quindicennale decorrente dalla data di ultimazione dei lavori”. Ai sensi del comma 8, “il proprietario o avente titolo presenta al comune la richiesta per il titolo abilitativo a sanatoria”, che è rilasciato “a seguito del pagamento degli oneri previsti all’art. 154, comma 2 del presente TU e con le modalità previsti all' articolo 23, comma 6, della legge regionale 3 novembre 2004 n. 21 (Norme sulla vigilanza, responsabilità, sanzioni e sanatoria in materia edilizia) con il solo obbligo di accertamento in conformità alle previsioni della variante apportata ai sensi del presente articolo”. Per gli edifici che non risulta possibile inserire nelle varianti il comma 9 dispone l’applicazione della disciplina di accertamento e sanzionatoria degli abusi edilizi, di cui al Titolo V, Capo VI, della legge in esame. Infine, per consentire “di verificare la possibilità del rientro alla normalità delle aree interessate”, il comma 10 sospende i provvedimenti amministrativi di demolizione e rimessa in pristino relativi agli immobili realizzati in difformità dalle previsioni urbanistiche a seguito degli eventi sismici iniziati il 26 settembre 1997.
La disciplina introdotta dalla disposizione censurata sostanzialmente introduce un’ipotesi di condono edilizio straordinario non previsto dalla legge statale, ponendosi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio contenuti nel d.p.r. n. 380/2001 (e in particolare con l’art. 36) e con le disposizioni statali in materia di ordinamento civile e penale, e pertanto viola l’art. 117, comma 3 e 117, comma 2, lettera l) della Costituzione. E’ di tutta evidenza, infatti, che la norma consente ai comuni di rilasciare il titolo in sanatoria per interventi edilizi non conformi agli strumenti urbanistici, per i quali potrebbe essere già stato emanato un provvedimento di demolizione (comma 10) senza peraltro individuare chiaramente di quali edifici si tratta (estremamente ampio il novero degli edifici “realizzati, prima del 31 dicembre 2000 … che, per effetto della crisi sismica dell’anno 1997 sono stati oggetto di sgombero totale”). Non solo l’accertamento in conformità di cui all’art. 36 del testo unico dell’edilizia si applica solo laddove vi sia la doppia conformità agli strumenti urbanistici e alla normativa edilizia (cosa che, evidentemente, non sussiste nel caso in esame), ma anzi presuppone che detto titolo sia richiesto prima che il comune emetta il provvedimento di demolizione.
Inoltre, la normativa regionale consente la vendita di questi immobili abusivi ai conduttori, in aperto contrasto con l’art. 46 del d.p.r. n. 380/2001, che dispone la nullità degli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento di diritti reali, relativi ad edifici abusivi. Addirittura, la norma regionale consente per questi immobili “incrementi delle volumetrie e delle altezze”, in spregio alla normativa statale che ha sempre vietato gli incrementi volumetrici per gli interventi abusivi. E’ evidente, infine, che la sanatoria farebbe venire meno gli effetti penali dell’abuso, e inciderebbe quindi in un ambito riservato alla potestà legislativa esclusiva statale.
Al riguardo, giova ricordare che la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 225/2012 (punto 3 del Considerato in diritto, ha chiarito che: “nella disciplina del condono edilizio convergono la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di sanzionabilità penale e la competenza legislativa concorrente in tema di governo del territorio di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenze n. 49 del 2006 e n. 70 del 2005)” e, soprattutto, che “è stata ritenuta di stretta interpretazione, in quanto espressione di principio generale afferente ai limiti della sanatoria, l’individuazione da parte della legge dello Stato delle fattispecie ad essa assoggettabili, di modo che le stesse non possono essere comunque ampliate o interpretate estensivamente dalla legislazione regionale. Per questo motivo risulta pienamente conforme al dettato costituzionale l’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, contenente la previsione tassativa delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria, la quale determina, in pratica, i limiti del condono, entro il cui invalicabile perimetro può esercitarsi la discrezionalità del legislatore regionale (sentenza n. 70 del 2005)”. Sul punto, si veda anche la sentenza n. 290/2009, secondo cui “Questa Corte ha già riconosciuto che “solo alla legge statale compete l'individuazione della portata massima del condono edilizio straordinario” (sentenza n. 70 del 2005; sentenza n. 196 del 2004), sicché la legge regionale che abbia per effetto di ampliare i limiti applicativi della sanatoria eccede la competenza concorrente della Regione in tema di governo del territorio”.
In via consequenziale, deve ritenersi costituzionalmente illegittimo, per i medesimi motivi, l’articolo 264, comma 13, secondo cui “I titoli abilitativi relativi alle istanze di condono edilizio sono rilasciati previa acquisizione dei pareri per interventi nelle aree sottoposte a vincolo imposti da leggi statali e regionali vigenti al momento della presentazione delle istanze medesime, fatto salvo quanto previsto in materia sismica e di tutela dei beni paesaggistici e culturali”.

31) L’articolo 264, comma 14 e 16
L’art. 264, al comma 14 prevede che “Gli interventi edilizi, limitatamente a quelli riguardanti l’area di pertinenza degli edifici dell’impresa agricola, compresa la realizzazione delle opere pertinenziali, nonché le opere senza strutture fondali fisse per l’attività zootecnica di cui all’articolo 17, comma 1, lettera d) delle norme regolamentari, esistenti alla data del 30 giugno 2014 e che risultino conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli adottati alla stessa data sono autorizzati con la procedura prevista all’articolo 154, commi 2, 3, 6, e 7, ferma restando l’applicazione delle eventuali sanzioni penali. In tali casi l’istanza è presentata entro e non oltre il 30 giugno 2015.”
La disposizione non prevede la cosiddetta “doppia conformità”, richiesta per la sanatoria dall’art. 36 e 37, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 (l’intervento deve risultare conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda), perché si limita a richiedere la conformità “alla disciplina urbanistica ed edilizia, agli strumenti urbanistici vigenti e non in contrasto con quelli adottati alla stessa data”, laddove tale ultima data sembra essere quella del 30 giugno 2014 (data fissata dalla stessa disposizione per stabilire i requisiti necessari per poter chiedere la sanatoria). Più che un’ipotesi di permesso in sanatoria, la norma censurata dunque configura una nuova, non consentita, ipotesi di condono edilizio, che non è materia di competenza legislativa regionale, ponendosi quindi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio attribuiti alla competenza legislativa statale dall’art. 117, comma terzo, della Costituzione.

L’articolo 264, comma 16 dispone che “La domanda di concessione ordinaria di piccola derivazione di acqua pubblica sotterranea dai pozzi autorizzati, previo pagamento annuale dei canoni e diritti previsti, costituisce autorizzazione annuale all'attingimento fino alla conclusione del procedimento di concessione senza obbligo di ulteriori formalità o istanze e comunque nei limiti fissati dalle normative di settore, salvo che l'autorità idraulica competente ne comunichi entro 30 giorni il diniego ai sensi della legge regionale 11 maggio 2007, n. 12 (Norme per il rilascio delle licenze di attingimento di acque pubbliche)”.
La norma regionale in questione attribuisce alla semplice domanda di concessione di piccola derivazione valore di autorizzazione all’attingimento, salvo che l'autorità idraulica competente ne comunichi il diniego al richiedente entro il termine di 30 giorni. L’articolo sopracitato estende l’istituto del “silenzio-assenso” al procedimento concessorio in palese violazione dell’articolo 17, comma 1°, del T.U. 1775/1933 che, invece, richiede un provvedimento espresso per derivare o utilizzare acqua pubblica.
Più precisamente, l’articolo da ultimo citato prevede che “è vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente”.
Alla luce delle precedenti considerazioni, l’articolo 264, comma 16, nella parte in cui estende il l’istituto del silenzio assenso alle concessioni di acqua pubblica si pone in contrasto con la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, per violazione della norma interposta di cui all’articolo 17, comma 1, R.D. 1775/1933.

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