Dettaglio Legge Regionale

Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 agosto 2016, n. 16. Disposizioni varie in materia di edilizia ed urbanistica. (6-8-2021)
Sicilia
Legge n.23 del 6-8-2021
n.35 del 13-8-2021
Politiche infrastrutturali
7-10-2021 / Impugnata
La legge della Regione Sicilia n. 23 del 2021, che interviene con modifiche ed integrazioni alla legge regionale 10 agosto 2016, n. 16 “Disposizioni varie in materia di edilizia ed urbanistica” recependo i cambiamenti avvenuti nel Testo Unico Edilizia DPR 380/01 nazionale col D.L. 76, presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione agli articoli 4, commi 1, 2 e 7; 6 lettera d) punti 1), 4), 5) e 6) ; 10 ; 20 comma 1, lettera b) ; 22; 37 lettere a), c) punto 1, punto 2 e d) e 38 per i motivi di seguito specificati. In via preliminare, si osserva che lo Statuto della Regione Sicilia approvato con R.D.Lgs. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, all'art. 14, comma 1, lettera n) e f), contenuto nella Sezione I (che contempla le funzioni dell'assemblea regionale), Titolo Il (che elenca le funzioni degli organi regionali) attribuisce alla Regione competenza legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, nonché di urbanistica. Detta competenze, ai sensi del medesimo articolo 14, comma 1, devono esercitarsi “nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato” e devono inoltre rispettare le c.d. “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze legislative (cfr. ad es., le sentt. Corte Costituzionale 385 del 1991 e 153 del 1995), tra queste ultime si rilevano: il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nonché le norme statali in materia di governo del territorio recanti principi di grande riforma. Le materie dell’ordinamento penale (art. 117, secondo comma, lettera l), e dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lettera m), restano, inoltre, integralmente sottratte alla potestà legislativa regionale, la quale deve comunque essere esercitata nel rispetto dei principi posti dagli articoli 3 e 9 della Costituzione.
Posto ciò, si richiamano le indicazioni della Corte Costituzionale che con riguardo alla disciplina del governo del territorio, ha stabilito che “sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così la sentenza n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)” (sentenza n. 259 del 2014). Pertanto, lo spazio di intervento residuale del legislatore regionale è quello di “esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali”, a condizione, però, che tale esemplificazione sia “coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia” (Corte Costituzionale sentenza n. 49 del 2016, sentenza n. 68 del 2018). Si aggiunga, altresì, che la funzione della salvaguardia ambientale/paesaggistica costituisce elemento fondamentale e prevalente della gestione del territorio, così come chiaramente rappresentato anche dalla giurisprudenza costituzionale (vds sentenze Corte Cost. n. 189/2016, Corte Cost., n. 182/2006 e n. 183/2006; Corte Cost. n. 478/2002; Corte Cost. n. 345/1997 e Corte Cost. n. 46/1995 e ordinanze Corte Cost. nn. 71/1999, 316/1998, 158/1998, 133/1993.) e da quella amministrativa, (vds. Cons. Stato, Sez. Il, 14 novembre 2019, n. 7839; Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2222).
Ciò premesso, risultano censurabili, in particolare, le seguenti disposizioni della legge regionale in argomento:
1. L’articolo 4 intitolato “Modifiche all'articolo 3 della legge regionale 10 agosto 2016, n. 16“ detta disposizioni per gli interventi di attività edilizia libera o subordinati a comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA), ampliando l’elenco degli interventi assentibili rispetto alla elencazione contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’Edilizia). Vengono in particolare inseriti tra gli interventi ricompresi nell’attività edilizia libera e tra quelli sottoposti a CILA alcuni che pongono particolare criticità rispetto alle esigenze di tutela culturale e paesaggistica, introducendo semplificazioni edilizie a scapito della tutela paesaggistica. Numerosi degli interventi previsti assentibili in via semplificata richiedono, in base al Testo Unico dell’Edilizia, il permesso di costruire, o la SCIA alternativa al permesso di costruire: la liberalizzazione regionale viola quindi il principio posto dal comma 6 dell’art. 6 del TUE.
1.1 Con riferimento ai profili di particolare criticità rispetto alle esigenze di tutela culturale e paesaggistica, tra gli interventi compresi dalla Regione nell’attività edilizia libera si segnalano i seguenti: (i) gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche, categoria nella quale il legislatore regionale comprende anche “la realizzazione di rampe o di ascensori esterni” se realizzati su aree private non prospicienti vie e piazze pubbliche (cfr. comma 1, lettera b), mentre il legislatore statale ha espressamente escluso proprio la realizzazione degli ascensori esterni o di altri manufatti in grado di alterare la sagoma dell’edificio (cfr. art. 6, comma 1, lettera b, del Testo unico dell’edilizia di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 – di seguito anche: TUE); (ii) l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, al di fuori dei centri storici (cfr. comma 1, lettera aa), che il legislatore statale ha limitato ai soli pannelli solari e fotovoltaici a servizio degli edifici (cfr. art. 6, comma 1, lettera e-quater, del TUE); (iii) le piscine pertinenziali prefabbricate fuori terra di dimensioni non superiori al 20 per cento del volume dell’edificio e appoggiate su battuti cementizi non strutturali (cfr. comma 1, lettera af). Nonostante il legislatore statale richieda per la realizzazione di piscine il permesso di costruire, la Regione inserisce le piscine fuori terra tra le attività a edilizia libera, e, benchè ne venga limitata la dimensione al 20% del volume di cui costituiscono pertinenza, il rapporto con il volume degli edifici, per casi di cubature elevate, potrebbe anche portare a superfici di notevole estensione; si tratta, inoltre, di manufatti che, per le loro caratteristiche (opere prefabbricate poggianti su battuti cementizi) determinano una significativa alterazione dello stato dei luoghi, nonché incidenza sulle matrici ambientali (consumo di suolo, oltre che di acqua).
Il legislatore regionale inserisce, tra gli interventi soggetti a CILA i sistemi per la produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili a servizio degli edifici, da realizzare all’interno della zona A di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico, che non comportino pregiudizio alla tutela del contesto storico, ambientale e naturale, in relazione alle linee guida impartite dall’Assessore regionale per i beni culturali e l’identità siciliana (cfr. comma 2, lettera p).
In particolare, la lettera p) prevede: “i sistemi per la produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili a servizio degli edifici, da realizzare all’interno della zona A di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968, e nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico, che non comportino pregiudizio alla tutela del contesto storico, ambientale e naturale, in relazione alle linee guida impartite dall’Assessore regionale per i beni culturali e l’identità siciliana”.
Il rinvio alle Linee guida costituisce, quindi, una vistosa deroga alle previsioni del Codice, che prevedono il rilascio di specifiche autorizzazioni (cfr. art. 21 e 146) per gli interventi che ricadono nei contesti tutelati. Oltretutto, il rispetto delle Linee guida sarebbe autocertificato con la CILA da chi presenta la comunicazione, così trascurando del tutto l’intervento nel procedimento degli uffici preposti alla tutela. Inoltre, la valutazione di compatibilità con il contesto tutelato viene parametrata sulla base di uno strumento (Linee guida assessoriali) estraneo alla normativa di tutela nazionale, e non, sotto il profilo paesaggistico, sulla base della disciplina d’uso contenuta nei provvedimenti di vincolo e nel piano paesaggistico, come invece imposto dagli articoli 135, 140, 141-bis e 143 del Codice. Pertanto, sono violate le richiamate previsioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, costituenti altrettante norme di grande riforma economico-sociale.
La Corte ha infatti messo in luce come “la giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato che, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., non si può discutere di materia in senso tecnico, perché la tutela ambientale è da intendere come valore costituzionalmente protetto, che in quanto tale delinea una sorta di «materia trasversale», in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, fermo restando che allo Stato spettano le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, con la conseguenza che l’intervento regionale è possibile soltanto in quanto introduca una disciplina idonea a realizzare un ampliamento dei livelli di tutela e non derogatoria in senso peggiorativo (Corte cost. n. 171 del 2012 che richiama, ex multis, le sentenze n. 235 del 2011, n. 225 e n. 12 del 2009).
Occorre sottolineare che benchè l’art. 146, comma 4, del Codice, attribuisca all’autorizzazione paesaggistica un ruolo indipendente rispetto al titolo edilizio, trattandosi di atto “autonomo e presupposto”, si tratta tuttavia di due titoli necessariamente connessi.
Gli strumenti urbanistici sono, del resto, subordinati al piano paesaggistico, al quale si devono conformare e le cui disposizioni sono cogenti e immediatamente prevalenti su quelle di ogni altro piano.
Tali criticità emergono, come si vedrà oltre, anche alla luce di quanto disposto dal comma 7 del nuovo art. 3, che, diversamente da quanto stabilito dal legislatore statale, dichiara la disciplina regionale prevalente sugli strumenti urbanistici.
1.2 Le norme regionali si pongono anche come lesive del valore primario e assoluto del paesaggio, implicando un abbassamento del livello di tutela e perciò contrastando con l’art. 9 Cost.
1.3 Occorre evidenziare ulteriori profili di illegittimità nella scelta del legislatore siciliano di ampliare a dismisura gli interventi “liberi” o soggetti a semplice CILA. Il TUE prevede un regime di liberalizzazione per gli interventi minori, o meno impattanti, sul territorio, via via aumentando il regime di controllo, attraverso la necessità di titoli edilizi più severi, fino a riservare il permesso di costruire per gli interventi più radicali, come le nuove costruzioni. Pertanto, benchè, in linea di principio, il regime liberalizzato possa estere esteso dalle Regioni anche a interventi edilizi “ulteriori” ai sensi dell’art. 6, comma 6, del TUE, tale possibilità non può estendersi fino a includere interventi comportanti una radicale trasformazione del territorio, tanto che il legislatore statale esclude tale possibilità per gli interventi soggetti a permesso di costruire o SCIA alternativa al permesso di costruire (cfr. Corte cost. n. 282 del 2016).
La Regione Siciliana, invece, ha deciso di liberalizzare interventi anche molto impattanti sul territorio, sottraendoli a ogni tipo di controllo, gran parte dei quali è invece soggetta, nel resto d’Italia, al permesso di costruire, proprio per la loro rilevanza. In particolare, si fa riferimento agli interventi previsti dal nuovo art. 3, comma 1, lettere: b) – ascensori esterni; h) – strade poderali; l) – strutture murarie per la sistemazione dei suoli agricoli; m) – vasconi in terra battuta per usi irrigui; p) – muri a secco con altezza massima di 1,5 m; s) – opere per lo smaltimento dei reflui provenienti da immobili destinati a civile abitazione, fosse tipo Imhoff o a tenuta, sistemi di fitodepurazione; af) – piscine pertinenziali. Nonché agli interventi previsti dal comma 2, lettere: g) – strade interpoderali; h) – opere murarie di recinzione con altezza massima di 2 m; i) – muri a secco con altezza compresa tra 1,5 e 1,7 m; l) – opere per lo smaltimento dei reflui per immobili con destinazione turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale.
I suddetti interventi, sono classificabili come “nuova costruzione”, ossia trasformazioni edilizie e urbanistiche del territorio di cui alla lettera e) del comma 1 dell’art. 3 del TUE, per le quali è richiesto come titolo edilizio il permesso di costruire (o la SCIA alternativa al permesso di costruire). Secondo il TUE, tali interventi richiedono il permesso di costruire, o la SCIA alternativa al permesso di costruire, mentre il legislatore regionale ha invece liberalizzato, violando il principio posto dal comma 6 dell’art. 6 del TUE.
Più volte, la Corte Costituzionale è intervenuta in materia di titoli edilizi, affermando che il potere estensivo regionale non può spingersi fino a “differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate” (Corte cost. n. 282 del 2016). In tale occasione la Corte ha evidenziato come le norme che disciplinano le forme di controllo sulle costruzioni, e in genere il regime dei titoli abilitativi edilizi, hanno natura di principio fondamentale della materia del “governo del territorio”, in quanto ispirate “alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali” (richiamando anche la precedente sentenza n. 231 del 2016).
La Corte, ha spiegato, per esempio, che “… l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, deve essere interpretato nel senso di escludere dal suo ambito applicativo, sia gli interventi volti alla creazione di nuove volumetrie (ad esempio: spogliatoi e docce), sia la costruzione di piscine, in quanto opere comportanti l’effettuazione di scavi e, come tali, del tutto estranee alla nozione di edilizia libera” (sentenza n. 282 cit.).
Come rilevato dalla Corte nella sentenza più volte citata, “Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere «i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6» (ancora sentenza n. 139 del 2013)”.
Pertanto, tali limiti si applicano necessariamente anche al legislatore siciliano, ai sensi dell’art. 14 dello Statuto di autonomia, e rendono le singole ipotesi previste illegittime ogni volta lo stesso non si sia mantenuto nei limiti di quanto gli è consentito.
1.4 Sotto questo profilo la normativa è anche lesiva dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti, in modo uniforme, su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m).
1.5 La normativa, risulta anche contraria ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, liberalizzando interventi classificati nel TUE nella categoria “nuova costruzione” violando gli articoli 3 e 97 Cost.
1.6 Diversamente dalla normativa statale, la normativa regionale, prevede inoltre, al comma 7 del nuovo art. 3 della legge regionale 10 agosto 2016, n. 16: “Le disposizioni di cui al presente articolo prevalgono su quelle contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi vigenti, i quali, ove in contrasto, si conformano al contenuto delle disposizioni del presente articolo.”. Il legislatore regionale contraddice poi tale previsione, replicando il previgente comma 6 dell’art. 3 della legge regionale n. 16 del 2016, che viene addirittura riformulato con l’aggiunta dell’ultima locuzione “i quali, ove in contrasto, si conformano al contenuto delle disposizioni del presente articolo”. Il nuovo art. 3 della legge regionale n. 16 del 2016, al comma 1, mette in salvo, oltre alle normative di settore, tra le quali le disposizioni contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, anche le “prescrizioni degli strumenti urbanistici” (così come previsto dal TUE, articoli 6, comma 1, e 6-bis, comma 1).
Tuttavia, il legislatore regionale contraddice poi tale previsione, replicando il previgente comma 6 dell’art. 3 della legge regionale n. 16 del 2016, che viene addirittura riformulato con l’aggiunta dell’ultima locuzione “i quali, ove in contrasto, si conformano al contenuto delle disposizioni del presente articolo”.
Pertanto, viene, chiaramente fissato il principio secondo il quale gli interventi assoggettati al regime l’attività edilizia libera dalla legge regionale sono realizzabili in ogni contesto, anche in contrasto con gli strumenti urbanistici.
Il predetto comma 7, pertanto, si pone in contrasto con la salvezza delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, a meno di non volere mantenere la richiamata salvezza nei limiti ristrettissimi di quelle disposizioni recanti prescrizioni in ordine alla (sola) modalità di realizzazione, comunque sempre assentita, degli interventi de quibus.
In ogni caso la previsione appare manifestamente contraddittoria e irragionevole, oltre che illegittima sotto plurimi profili.
1.6.1 Sotto un primo profilo, la normativa contrasta con la norma statale (articoli 6, comma 1 e 6-bis, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001) che subordina l’attività a edilizia libera o soggetta a CILA alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, con ciò sancendo la prevalenza di queste ultime rispetto alla stessa attività edilizia libera o soggetta a CILA (che potrebbero, quindi, se del caso, anche vietare alcune tipologie di interventi, o consentirle solo in determinate zone del territorio comunale). Tale regola di prevalenza non può che rappresentare una norma di grande riforma economico-sociale, che anche le Autonomie speciali sono tenute a rispettare. La previsione regionale, inoltre, pone nel nulla l’attività di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, disciplinata dall’art. 27 TUE, che presuppone la violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, consentendo in modo generalizzato sul territorio comunale interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici, che ordinariamente sarebbero oggetto di demolizione ai sensi del medesimo art. 27.
1.6.2 Sotto un altro profilo, la norma regionale, imponendosi ai Comuni, diminuisce l’autonomia agli stessi riconosciuta e garantita dalla Costituzione, soppiantando così la funzione pianificatoria comunale in materia urbanistica. La Corte, con riferimento alle funzioni assegnate agli enti locali all’interno del “sistema della pianificazione”, ha evidenziato l’esigenza di procedere a una “verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali” attraverso un giudizio di proporzionalità, che “deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti” (Corte cost. n. 119 del 2020). Tale giudizio di proporzionalità deve necessariamente svolgersi qualora sia dedotta la compressione dell’autonomia comunale, autonomia che appare derogabile soltanto ad opera di interventi finalizzati alla tutela di interessi di rilievo costituzionale primario e, inoltre, “quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti”. Sotto questo profilo la normativa regionale si pone in contrasto con gli articoli 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), e sesto comma, e 118 Cost., nonché dei limiti alla potestà legislativa regionale di cui all’articolo 14 dello Statuto di autonomia.
1.7 La consistente mole di interventi, di ingente impatto sul territorio, realizzabili in deroga alla pianificazione urbanistica, viola ancora la norma di grande riforma economico-sociale costituita dal principio della pianificazione urbanistica, di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, in base al quale tutto il territorio comunale deve essere pianificato.

1.8 Inoltre, anche nella Regione Siciliana – dotata di potestà legislativa esclusiva in materia di “tutela del paesaggio”, ai sensi dell’art. 14, lett. n), dello Statuto di autonomia – il piano paesaggistico assume carattere necessariamente sovraordinato agli altri strumenti di pianificazione territoriale, in applicazione degli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, aventi carattere di norme di grande riforma economico-sociale. In particolare, l’art. 145 del Codice stabilisce il principio della necessaria prevalenza del suddetto piano rispetto a ogni altro strumento di pianificazione e la sua inderogabilità da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico. La prevalenza della normativa regionale sugli strumenti urbanistici, adeguati al piano paesaggistico, può tradursi in una deroga a quest’ultimo, con elusione del principio di cui all’art. 145 sopra richiamato.

1.9 La disposizione regionale si pone inoltre in contrasto anche con il regime di tutela indiretta, disciplinato dal Codice agli articoli 45 e seguenti. Infatti l’art. 45, comma 2, ultimo periodo stabilisce: “Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici”.
La disposta prevalenza della normativa regionale, volta ad assentire ex ante ed ex lege interventi che potrebbero invece essere vietati dagli strumenti urbanistici, può tradursi pertanto anche in una lesione delle prescrizioni di tutela indiretta, che dettano distanze, misure e altre norme finalizzate a evitare che sia messa in pericolo l’integrità di beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce, o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro che devono essere recepite negli strumenti urbanistici, proprio al fine di assicurarne il rispetto.
1.10 Le previsioni regionali, infine, invadono la competenza statale in materia di ordinamento penale, di cui alla lettera l) dell’art. 117, secondo comma, Cost, in quanto , liberalizzando interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, o subordinandone alcuni alla semplice CILA, sottrae la realizzazione di tali interventi alle conseguenze sanzionatorie e penali legate alla realizzazione di tali interventi in assenza o in difformità del titolo edilizio, “depenalizzando” sostanzialmente le relative fattispecie di reato (che restano tali nel resto d’Italia).

Pertanto, viene invasa anche la competenza in materia di ordinamento penale, riservata allo Stato ai sensi della lettera l) dell’art. 117, secondo comma, Cost.
1.11 Infine, si precisa, che nonostante la previsione de qua sia, come detto, in parte ripetitiva di analoga previsione regionale già presente nel testo previgente dell’art. 3, il consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene ammissibile l’impugnativa di una norma regionale che ripeta il contenuto di una norma regionale previgente anche se non impugnata, trattandosi di una autonoma disposizione che rinnova la lesione al riparto costituzionale di competenze, come delineato dalla Costituzione e dallo Statuto di autonomia della regione siciliana, ed essendo inapplicabile all’impugnativa di leggi regionali da parte dello Stato l’istituto dell’acquiescenza (cfr. sentenza Corte cost. n. 56 del 2020, che richiama le precedenti sentenze n. 41 del 2017, n. 231 e n. 39 del 2016).
In conclusione, l’art. 4 della legge regionale in esame, è censurabile limitatamente ai nuovi commi 1, 2 e 7, del nuovo articolo 3, introdotto dall’art. 4 della legge regionale in esame, in quanto costituzionalmente illegittimo:
(i) limitatamente ai commi 1 e 2, per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale; dell’art. 117, primo comma Cost.; dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. rispetto al quali costituiscono norme interposte gli articoli 21, 135, 140, 141-bis, 143, 145 e 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio; 117, secondo comma, lett. m) Cost; degli articoli 3, 9, 97 Cost.; per violazione delle norme di grande riforma economico-sociale contenute nell’art. 6 e 6-bis del d.P.R. n. 380 del 2001;
(ii) limitatamente al comma 7, per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale; dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto al quali costituiscono norme interposte gli articoli 45, 135, 143, 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio; 117, secondo comma, lett. l) e p) Cost; dell’art. 117, sesto comma Cost.; degli articoli 3, 5, 9, 97, 114, 118 Cost.; per violazione delle norme di grande riforma economico-sociale contenute nell’art. 6, 6-bis e 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, e dell’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942.
2. L’art. 6 della legge regionale in esame sostituisce l’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016. In particolare, il comma 1, lettere a), b) e c), ripete il comma 1 dell’art. 10 del TUE. La successiva lettera d), invece, contiene l’elenco degli ulteriori interventi subordinati a permesso di costruire (“opere di recupero volumetrico ai fini abitativi e per il contenimento del consumo di nuovo territorio, come di seguito definite”), in apparente attuazione dell’art. 10, comma 3, del TUE. L’elencazione regionale è in molti casi illegittima, in quanto non si limita a individuare ulteriori interventi edilizi, rientranti nella categoria delle opere indicate nella lettera d), la cui realizzazione, “in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico” richiede il permesso di costruire – misura che, in questi termini, rientrerebbe senz’altro nelle attribuzioni della Regione – ma sostanzialmente introduce a regime la legittimazione al recupero a fini abitativi ex post di sottotetti, pertinenze, verande, locali interrati etc.
La Regione, contemporaneamente, abroga la precedente normativa che consentiva il recupero a fini abitativi dei sottotetti legittimamente realizzati fino alla data di entrata in vigore della normativa stessa nell’aprile del 2003 (cfr. art. 18 legge regionale n. 4 del 2003, abrogato dall’art. 23, comma 1, lettera b), della legge n. 23 del 2021).

A seguito di tali modificazioni, viene quindi permesso il recupero generalizzato, senza alcun limite temporale e in deroga alla pianificazione urbanistica in qualunque tempo emanata, di qualsivoglia sottotetto, locale interrato etc, anche se realizzato, a rigore, addirittura dopo l’entrata in vigore della norma de qua, attribuendo premialità volumetriche ulteriori e distinte rispetto a quelle consentite dalla disciplina urbanistico-edilizia, e ciò anche nei centri storici. Sono inoltre compresi anche gli immobili regolarizzati attraverso sanatorie edilizie e SCIA in sanatoria, contrariamente alla normativa sul c.d. piano casa che, per come esplicitata nell’Intesa Stato-Regioni del 2009, esclude gli dal campo di applicazione delle “premialità” gli immobili nati come illegittimi, se pur successivamente sanati.
Al riguardo, occorre in via preliminare osservare che il legislatore nazionale, al di fuori delle normative eccezionali per finalità abitative, di riqualificazione ed efficientamento energetico (c.d. piano casa, di cui al decreto-legge n. 112 del 2008 e al decreto-legge n. 70 del 2011) non ha disciplinato il recupero abitativo di opere quali quelle sopra elencate, come i sottotetti et alia, che pur si pone come derogatorio al principio di ordinato sviluppo del territorio nel rispetto degli strumenti e degli standard urbanistici.
A tale proposito, la Corte costituzionale, con riferimento a norme regionali volte a consentire il recupero a fini abitativi dei sottotetti già esistenti, ha evidenziato la peculiarità della fattispecie, ritenendola legittima “a condizione che fossero rispettati tutti i limiti fissati dal legislatore statale in tema di distanze, tutela del paesaggio, igiene e salubrità” (Corte cost. n. 208 del 2019, che richiama le precedenti sentenze n. 282 e n. 11 del 2016).
Pertanto, secondo le indicazioni della Corte, possono richiamarsi anche in questo caso i principi e i limiti entro i quali il legislatore nazionale ha circoscritto le premialità volumetriche a fini abitativi e di contenimento dell’uso del suolo in occasione del c.d. piano casa, frutto di normative eccezionali. In particolare, tali interventi non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta. Inoltre, il legislatore statale ha mantenuto fermo il rispetto degli standard urbanistici nonché delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
La Corte costituzionale, anche di recente ha sottolineato la necessità di tutelare i centri storici quali beni unitari, affermando: “si desume dalle norme del codice dei beni culturali il principio secondo cui i centri storici, in quanto beni paesaggistici “unitari” e di notevole interesse pubblico, meritano una specifica tutela. L’art. 136 del detto codice, infatti, qualifica oggi espressamente i centri e i nuclei storici come aree di notevole interesse pubblico. In considerazione dell’evoluzione della concezione del centro storico, da considerarsi non solamente una “zona urbanistica”, ma appunto un bene dall’alto valore culturale e ambientale, occorre che i soggetti responsabili della sua protezione si dotino di strumenti idonei a coniugare l’esigenza di sviluppo del centro urbano con quella di conservazione e valorizzazione dei beni immobili ivi presenti. Il centro storico è tutelato, dunque, come “unità complessa”, a prescindere dalla circostanza che al suo interno vi siano beni immobili vincolati ai sensi della Parte II cod. beni culturali” (cfr. sentenza n. 130 del 2020). Sotto questo profilo, la Corte ha enfatizzato il ruolo cooperativo dello Stato e delle Regioni, che “nell’ambito delle competenze in materia di governo del territorio o urbanistica” devono cercare “di superare la visione parcellizzata degli interventi edilizi per privilegiare la considerazione unitaria dei nuclei storici”.
Diversamente, il legislatore regionale siciliano, permette: il recupero volumetrico a fini abitativi delle opere anzidette senza alcun limite temporale, ossia “a regime”, comprese quelle realizzate su immobili regolarizzati a seguito di sanatoria (punto 1 della lettera d dell’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016, come sostituito dall’art. 6 della legge regionale n. 23 del 2021); il recupero abitativo delle pertinenze, dei locali accessori, degli interrati e dei seminterrati e degli ammezzati “in deroga alle norme vigenti” (punto 4 della lettera d dell’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016, come sostituito dall’art. 6 della legge regionale n. 23 del 2021), mantenute invece ferme, come si è detto, dal legislatore statale nell’ambito del piano casa (cfr. Corte cost. n. 217 del 2020); l’apertura di finestre, lucernari e terrazzi, opere in grado di modificare permanentemente lo sky line urbano, senza inquadrare tali interventi all’interno del piano paesaggistico, strumento di vertice deputato alla pianificazione territoriale, e ciò anche nei centri storici (esclusi invece dalla normativa sul piano casa), prevedendo (al punto 5 della lettera d dell’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016, come sostituito dall’art. 6 della legge regionale n. 23 del 2021) che: “gli interventi edilizi finalizzati al recupero dei sottotetti, delle pertinenze e dei locali accessori avvengono senza alcuna modificazione delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde. Tale recupero può avvenire anche mediante la previsione di apertura di finestre, lucernari e terrazzi esclusivamente per assicurare l’osservanza dei requisiti di aero-illuminazione. Per gli interventi da effettuare nelle zone territoriali omogenee A di cui all’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, ovvero negli immobili sottoposti ai vincoli del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni anche nei centri storici se disciplinati dai piani regolatori comunali, ovvero su immobili ricadenti all’interno di parchi e riserve naturali, o in aree protette da norme nazionali o regionali, e in assenza di piani attuativi, i comuni adottano, acquisito il parere della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali, ovvero di concerto con gli enti territoriali competenti alla gestione di suddetti parchi e riserve naturali o aree protette, una variante al vigente regolamento edilizio comunale, entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Detta variante individua anche gli ambiti nei quali, per gli interventi ammessi dalla presente legge, non è applicabile la segnalazione certificata di inizio attività. È fatto salvo l’obbligo delle autorizzazioni previste dal decreto legislativo n. 42/2004 e successive modificazioni”.
Al riguardo, si chiede il rispetto delle prescrizioni tecniche edilizie contenute nei regolamenti vigenti nonché delle normative in materia di impianti tecnologici e contenimento dei costi, “fatte salve le deroghe di cui ai punti precedenti” e nelle aree soggette a tutela (punto 6 della lettera d dell’art. 5 della legge regionale n. 16 del 2016, come sostituito dall’art. 6 della legge regionale n. 23 del 2021).
In ordine ai singoli profili di illegittimità si precisa quanto segue.
2.1. La normativa regionale, sancendo la regola della ordinaria trasformabilità a fini abitativi di manufatti edificati quali spazi non abitabili, si pone in contrasto con il principio urbanistico dell’ordinato sviluppo del territorio, nonché con la necessità di considerare unitariamente i centri storici.
La normativa regionale sostituisce la normativa speciale previgente, concernente gli edifici realizzati fino al 2003 (cfr. art. 18, comma 1, della legge regionale n. 4 del 2003, che fa riferimento agli “edifici esistenti e regolarmente realizzati alla data di approvazione della presente legge”), in quanto attuativa dei principi di contenimento del consumo di suolo e di efficientamento energetico, estendendola a tutti gli edifici, anche di più recente realizzazione, con ciò contravvenendo al principio fondamentale in materia di governo del territorio – sotteso all’intero impianto della legge urbanistica n. 1150 del 1942, in particolare a seguito delle modifiche apportatevi dalla legge n. 765 del 1967 – secondo il quale gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sono consentiti soltanto nel quadro della pianificazione urbanistica, che esercita una funzione di disciplina degli usi del territorio necessaria e insostituibile, in quanto idonea a fare sintesi dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, che afferiscono a ciascun ambito territoriale.
Costituiscono infatti principi fondamentali in materia di governo del territorio, che si impongono anche alla potestà legislativa primaria spettante alle Regioni ad autonomia speciale, quelli posti dall’articolo articolo 41-quinquies della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150; articolo aggiunto dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, tra i quali il necessario rispetto degli standard urbanistici. Il “recupero” a fini abitativi generalizzato e senza alcun limite né oggettivo né temporale, previsto dalla norma regionale, è per forza di cose destinato a stravolgere gli standard legati al carico insediativo e alla densità abitativa, relativi ai fabbisogni delle dotazioni territoriali di un determinato insediamento e del tutto autonomi rispetto al mero standard delle distanze.
Appare chiaro infatti che la sommatoria di “recuperi” a fini abitativi, anche in caso di non incremento di volume fisico (ma solo di volumetria urbanistica) o di superficie utile, è destinata a incidere sul livello sostenibile di popolazione insediabile compatibile con un certo tessuto abitativo e perciò, inevitabilmente, sugli standard urbanistici, intesi quali rapporti fra insediamenti e spazi pubblici o per attività di interesse generale, e sugli standard edilizi, quali limiti inderogabili di densità edilizia (fatta eccezione per le altezze/distanze ove mantenute ferme), comportandone di fatto la deroga.
In nessun caso la disciplina del primo o del secondo piano casa – per sua natura di stretta interpretazione – consente alle Regioni di derogare ai c.d. standard urbanistici previsti dalla normativa statale, ma solamente, e solo temporaneamente, agli strumenti urbanistici.
La Corte costituzionale ha ribadito la necessità, per il legislatore regionale, di rispettare sempre e comunque i limiti fissati dal d.m. n. 1444 del 1968, che trova il proprio fondamento nell’art. 41-quinquies, commi ottavo e nono, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (cfr. sentenza n. 217 del 2020).
Pertanto, è costituzionalmente illegittima una normativa regionale volta a introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al decreto ministeriale n. 1444 del 1968, tanto più laddove tali deroghe generalizzate assumano carattere stabile nel tempo. Una tale opzione normativa viene, infatti, a snaturare del tutto la funzione propria della pianificazione urbanistica e degli standard fissati a livello statale, volti ad assicurare l’ordinato assetto del territorio.
Viene, peraltro, violato anche il principio di cui all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si prevede che la realizzazione di interventi in deroga alla pianificazione urbanistica può essere assentita solo sulla base di una valutazione fatta caso per caso da parte del Consiglio comunale, sulla base di una ponderazione di interessi riferita alla fattispecie concreta.
Inoltre, poiché la normativa ha ad oggetto anche edifici oggetto di sanatoria, si pone in contrasto col principio che vieta premialità edilizie in caso di immobili abusivi oggetto di sanatoria, esplicitato nell’Intesa del 2009 sul c.d. primo piano casa.
La normativa regionale, sotto questo profilo, si pone perciò in contrasto con i limiti statutari fissati dall’art. 14.
2.2. La normativa, inoltre, destinata a incidere sul patrimonio culturale e sui centri storici, e in generale sul paesaggio urbano, vincolato o meno, si pone in contrasto con i principi dettati dal Codice che rimettono al piano paesaggistico, quale strumento di vertice di pianificazione del territorio, la regolamentazione delle trasformazioni in grado di incidere sul paesaggio.
Non appare sufficiente, al riguardo, richiedere il parere della Soprintendenza sulle varianti ai regolamenti comunali, nonché mantenere ferme le autorizzazioni caso per caso previste dal Codice. Il recupero generalizzato, come prefigurato dal legislatore regionale, svincolato dalle previsioni di pianificazione, rischia di trasformarsi in un fenomeno del tutto incontrollabile da un punto di vista complessivo, trattandosi di un insieme parcellizzato di interventi non disciplinato a monte e perciò in grado di incidere massicciamente sul paesaggio urbano senza che possano prevedersi gli effetti finali complessivi delle singole trasformazioni assentite.
La disciplina regionale non si sottrae espressamente alla disciplina d’uso del piano paesaggistico, alla quale in ogni caso nemmeno rinvia, ma tale circostanza non è sufficiente ad escludere che la disposizione censurata non si ponga in contrasto con il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica, o rechi a esso una deroga.
La Corte ha rimarcato che il “principio di prevalenza della tutela paesaggistica deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito […] adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto” (sentenza n. 141 del 2021, che richiama le sentenze nn. 29, 54, 74 e 101 del 2021).
Al riguardo, deve sottolinearsi che nei casi in cui le leggi regionali rechino una disciplina d’uso del territorio, esse svolgono una funzione pianificatoria che inevitabilmente fuoriesce dai confini della materia “governo dal territorio” e, anche laddove riguardi il paesaggio non vincolato, viene a impingere nella materia della tutela del paesaggio, la cui disciplina, che si impone anche alle Regioni speciali in quanto di grande riforma economico-sociale, pone in capo alle Regioni un vero e proprio obbligo (e non la mera facoltà) di pianificare l’intero territorio regionale mediante i piani paesaggistici (art. 135 del Codice).
Le Regioni pertanto che, in assenza di una specifica disposizione statale (come avviene per esempio nell’ipotesi del c.d. piano casa), disciplinano il territorio regionale mediante legge eludono l’obbligo di pianificazione del territorio mediante l’unico strumento deputato a contenere la normativa d’uso del territorio, ossia il piano paesaggistico, esercitando la funzione di disciplina del paesaggio e dei beni paesaggistici in contrasto e in deroga con il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica.
2.3. Comportando un generale abbassamento del livello di tutela, la normativa regionale appare anche contraria all’art. 9 Cost., ai sensi del quale il paesaggio è valore primario e assoluto (Corte cost. n. 367 del 2007).
2.4. La normativa regionale contrasta inoltre con l’obbligo di pianificazione, posto in capo alle Regioni (cfr. art. 135 del Codice) con riferimento all’intero territorio regionale.
È indubbio che la disciplina derogatoria operi, oltre che in relazione ai beni paesaggistici, anche in relazione al paesaggio non vincolato, costituente comunque oggetto di tutela ai sensi della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze del 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14. Anche con riferimento al paesaggio non vincolato le regioni sono tenute alla pianificazione paesaggistica, secondo la previsione dell’art. 135 del Codice.
La Convenzione prevede infatti, all’articolo 1, lett. a), che il termine «paesaggio» “designa una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Oggetto della protezione assicurata dalla Convenzione sono, quindi, tutti i paesaggi, e non solo i beni soggetti a vincolo paesaggistico.
Con riferimento ai paesaggi, così definiti, la Convenzione prevede, all’articolo 5, che “Ogni Parte si impegna a:
a) riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità;
b) stabilire e attuare politiche paesaggistiche volte alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione dei paesaggi, tramite l’adozione delle misure specifiche di cui al seguente articolo 6;
c) avviare procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche menzionate al precedente capoverso b);
d) integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio.”.
In forza del successivo articolo 6, inoltre, l’Italia si è impegnata all’adozione di misure specifiche, tra l’altro, in tema di “Identificazione e valutazione”, da attuare “Mobilitando i soggetti interessati conformemente all’articolo 5.c, e ai fini di una migliore conoscenza dei propri paesaggi, ogni Parte si impegna a:
a) i identificare i propri paesaggi, sull’insieme del proprio territorio; ii analizzarne le caratteristiche, nonché le dinamiche e le pressioni che li modificano;
iii seguirne le trasformazioni;
b) valutare i paesaggi identificati, tenendo conto dei valori specifici che sono loro attributi dai soggetti e dalle popolazioni interessate; (…)”.
Le misure richieste dalla Convenzione prevedono, inoltre, la fissazione di appositi obiettivi di qualità paesaggistica e l’attivazione degli “strumenti di intervento volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione dei paesaggi”.
L’adempimento degli impegni assunti mediante la sottoscrizione della Convenzione richiede che tutto il territorio sia oggetto di pianificazione e di specifica considerazione dei relativi valori paesaggistici, anche per le parti che non siano oggetto di tutela quali beni paesaggistici. Nel sistema ordinamentale, ciò si traduce nei precetti contenuti all’articolo 135 del Codice di settore, il cui testo è stato integralmente riscritto dal decreto legislativo n. 63 del 2008, a seguito del recepimento della Convenzione europea del paesaggio.
In particolare, il comma 1 del predetto articolo 135 stabilisce che “Lo Stato e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: "piani paesaggistici". L’elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143”.
Il medesimo articolo 135 disciplina, poi, la funzione e i contenuti del piano paesaggistico. Fermo restando che il principio di co-pianificazione è attuato, nella Regione siciliana, conformemente all’autonomia speciale, in ogni caso, anche con riferimento al paesaggio non vincolato, tutte le regioni sono tenute alla pianificazione paesaggistica, la quale deve prevalere su ogni altro strumento pianificatorio e deve essere basata su una valutazione in concreto dello stato dei luoghi. Pertanto, tale pianificazione non può essere legittimamente sostituita da previsioni normative che consentano in modo generalizzato determinate trasformazioni del territorio, senza alcuna considerazione del singolo contesto.
2.5. Le disposizioni regionali sono manifestamente irragionevoli e sproporzionate. Le stesse infatti ledono il principio dell’ordinato assetto del territorio, tutelato mediante la pianificazione urbanistica comunale, di cui al richiamato art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1941, principio, anch’esso, da ritenere derogabile soltanto ad opera di interventi finalizzati alla tutela di interessi di rilievo costituzionale primario e, inoltre, “quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti”.
La disciplina regionale appare fortemente irragionevole, posto che la novella ammette gli interventi in deroga anche su edifici di recentissima realizzazione o addirittura di futura edificazione, senza che possano venire in gioco, quindi, interessi pubblici rilevanti quali il contenimento dell’uso di suolo, l’efficientamento energetico, o la rigenerazione urbana, che stanno alla base della normativa di recupero dei sottotetti o dei piani interrati.
Inoltre, il recupero viene irragionevolmente esteso anche agli edifici oggetto di sanatoria, nonostante gli stessi siano esclusi, per esempio, dal piano casa nazionale. Tali previsioni risultano perciò anche manifestamente arbitrarie e irragionevoli, nonché contrarie al principio del buon andamento dell’amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione).
Conclusivamente, è censurabile la lettera d), punti 1), 4), 5) e 6) del comma 1 del nuovo art. 5 della legge n. 16 del 2016, come sostituito dall’art. 6 della legge n. 23 del 2021, in quanto illegittimo per violazione dell’art. 14 dello Statuto siciliano; degli articoli 3, 9 e 97 Cost.; dell’art. 117, primo comma, Cost., alla luce della legge n. 14 del 2006 di recepimento della Convenzione europea del paesaggio; dell’art. 117, secondo comma, lettera s), di cui costituiscono parametri interposti gli articoli 135, 143 e 145 del Codice e delle norme di grande riforma economico sociale recate dall’art. 41-quinquies della legge e 1150 del 1942 e dall’art. 14 del d.P.R. n. 40 nonché dalla legge 12 del 2008, e dalla relativa Intesa Stato-Regioni.
3. L’art. 10 sostituisce l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2016, rubricato “Recepimento con modifiche dell’articolo 22 "Segnalazione certificata di inizio attività e denuncia di inizio attività" e dell’articolo 23 "Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività in alternativa al permesso di costruire" del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”.
In particolare, il nuovo comma 10 prevede: “Previa segnalazione certificata di inizio attività, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo n. 42/2004 e successive modificazioni sono consentiti nel medesimo lotto gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati, nel rispetto della volumetria esistente, per motivi di sicurezza o di rispetto di distanze previste negli strumenti urbanistici vigenti alla data dell’intervento previo parere e autorizzazione paesaggistica della Soprintendenza competente per territorio”.
Tale disposizione che disciplina la SCIA, Segnalazione certificata di inizio attività, e la DIA denuncia di inizio attività, contrasta con la definizione degli interventi edilizi e in specie con la clausola di salvaguardia a favore dei beni tutelati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, stabilita dall’ultimo periodo dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, che recita: d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
La clausola di salvaguardia, per i beni vincolati o situati in aree vincolate, prevede infatti il mantenimento contemporaneamente di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente, oltre alla mancanza di nuove volumetrie, per poter qualificare le demo-ricostruzioni, o gli interventi di ripristino come “ristrutturazione edilizia”. Ove tali requisiti non siano tutti rispettati, gli interventi rientrano nella “nuova costruzione” e sono perciò assoggettati a permesso di costruire. L’art. 10, comma 1, lett. c) del TUE precisa inoltre che siffatti interventi sono subordinati a permesso di costruire.
La disposizione regionale, invece, sottopone a SCIA, anziché a permesso di costruire, taluni interventi di demo-ricostruzione o ricostruzione di immobili tutelati, pertanto, essa viola l’art. 14 dello Statuto speciale di autonomia; l’art. 9 e l’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e s) Cost.; l’art. 117, primo comma, Cost. e le norme di grande riforma economico-sociale recate dagli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
L’art. 10, comma 1, lett. c) del TUE precisa inoltre che “gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42” costituiscono “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire”.
Invece, la disposizione regionale, pur richiamando il rispetto della volumetria esistente, sottopone a SCIA, anziché a permesso di costruire, gli interventi di demo-ricostruzione o ricostruzione di immobili tutelati per il solo fatto che tali interventi si collochino sullo stesso lotto e sussistano motivi di sicurezza o di rispetto di distanze previste negli strumenti urbanistici vigenti, requisiti introdotti dal legislatore regionale e che si differenziano dai requisiti inderogabilmente richiesti dal legislatore statale. I sopradetti requisiti, sono finalizzati direttamente alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio e, pertanto, risultano dettati dallo Stato nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. s) e rientrano tra le norme di grande riforma economico-sociale che si impongono anche alle Regioni a statuto speciale. Di ciò non può dubitarsi, ove si consideri che l’assoggettamento degli interventi su beni vincolati a permesso di costruire comporta anche l’applicazione del corrispondente regime sanzionatorio amministrativo e penale. Di conseguenza, la scelta operata dal legislatore statale in tema di individuazione del titolo edilizio necessario in relazione ai beni vincolati è direttamente finalizzata alla cura degli interessi primari posti dall’articolo 9 della Costituzione.
Pertanto, è certamente esclusa la possibilità per la Regione di individuare un titolo edilizio differente, atteso che ciò incide anche sui livelli essenziali delle prestazioni che devono essere assicurati uniformemente sull’intero territorio nazionale – tra i quali vanno annoverati i titoli necessari per intervenire sui beni tutelati – nonché sulla potestà legislativa dello Stato in materia di individuazione delle fattispecie di reato per la lesione dei predetti interessi (art. 117, secondo comma, lett. m e l, Cost.. Peraltro, La Corte costituzionale, ha già sottolineato che i livelli essenziali delle prestazioni non costituiscono una materia in senso stretto, “quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle” (Corte cost. n. 207 del 2012, riferita a una norma della Provincia di Trento, che richiama le precedenti sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).
In tale senso, la Corte ha spiegato che le esigenze di uniformità sono rinvenibili anche “in tema di autorizzazione paesaggistica su tutto il territorio nazionale, tanto da giustificare – grazie al citato parametro (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) – che si impongano anche all’autonomia legislativa delle Regioni”. La Corte costituzionale, inoltre, si è più volte pronunciata sulla inderogabilità, da parte del legislatore regionale, oltre che delle disposizioni relative ai titoli edilizi anche di quelle afferenti alle categorie di interventi: “Questa Corte ha già ricondotto nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del Considerato in diritto): a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato” (cfr. sentenza n. 309 del 2011). La Corte, nella sentenza citata, ha peraltro precisato “La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d’altronde, non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli» (Relazione illustrativa della legge 11 giugno 1922, n. 778 «Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico», Atti parlamentari, Legislatura XXV, Senato del Regno, Tornata del 25 settembre 1920). Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» – tra gli altri – «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1 del Considerato in diritto). Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio […] della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua tutela”. Anche questa disposizione è quindi censurabile in quanto viola l’art. 14 dello Statuto speciale di autonomia; l’art. 9 e l’art. 117, secondo comma, lettere l), m) e s) Cost.; le norme di grande riforma economico-sociale recate dagli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.

4. L’art. 20 modifica l’art. 25 della legge regionale n. 16 del 2016, concernente la “Compatibilità paesaggistica delle costruzioni realizzate in zone sottoposte a vincolo e regolarizzazione di autorizzazioni edilizie in assenza di autorizzazione paesaggistica”.
In particolare, il comma 1, lettera b), sostituisce il comma 3 del predetto art. 25 con il seguente: “La procedura di cui ai commi 1 e 2 si applica anche per la regolarizzazione di concessioni edilizie rilasciate in assenza di autorizzazione paesaggistica per i beni individuati dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 134 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, sempre che le relative istanze di concessione siano state presentate al comune di competenza prima dell’apposizione del vincolo.”.
Il comma 3 previgente recitava: “La procedura di cui ai commi 1 e 2 si applica anche per la regolarizzazione di concessioni edilizie rilasciate in assenza di autorizzazione paesaggistica, sempre che le relative istanze di concessione siano state presentate al comune di competenza prima della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana del decreto istitutivo del vincolo di cui all’articolo 140 del decreto legislativo n. 42/2004 e successive modifiche ed integrazioni”.
La novella ammette la possibilità di una sanatoria ex post, prima ristretta ai soli casi di vincolo paesaggistico istituito con dichiarazione di notevole interesse pubblico, anche alle aree vincolate paesaggisticamente ope legis, a far data dalla legge c.d. Galasso (legge n. 431 del 1985), per il solo fatto che sia stata presentata istanza di concessione edilizia prima dell’apposizione del vincolo, circostanza che diventa unica condizione legittimante.
L’estensione della disposizione, già di per sé illegittima in quanto contraria al principio di sanatoria ex post introdotto dal Codice, si evince: (i) dall’introduzione, nella norma, del riferimento ai “beni individuati dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 134” del Codice, che sono, rispettivamente, i beni dichiarati di notevole interesse pubblico con decreto (lettera a) e le aree tutelate ai sensi dell’art. 142 del Codice, ossia le aree c.d. “Galasso” (lettera b);
La novella ammette la possibilità di una sanatoria ex post, prima ristretta ai soli casi di vincolo paesaggistico istituito con dichiarazione di notevole interesse pubblico, anche alle aree vincolate paesaggisticamente ope legis, a far data dalla legge c.d. Galasso (legge n. 431 del 1985), per il solo fatto che sia stata presentata istanza di concessione edilizia prima dell’apposizione del vincolo, circostanza che diventa unica condizione legittimante.
L’estensione della disposizione, già di per sé illegittima in quanto contraria al principio di sanatoria ex post introdotto dal Codice, si evince: (i) dall’introduzione, nella norma, del riferimento ai “beni individuati dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 134” del Codice, che sono, rispettivamente, i beni dichiarati di notevole interesse pubblico con decreto (lettera a) e le aree tutelate ai sensi dell’art. 142 del Codice, ossia le aree c.d. “Galasso” (lettera b);
L’intervento regionale interviene peraltro a distanza di oltre quarant’anni dall’imposizione del vincolo ope legis, e a oltre quindici anni dall’entrata in vigore del divieto di sanatoria ex post, fissato dal Codice ai sensi del combinato disposto dell’art. 146, comma 4, e 167, commi 4 e 5.
L’art. 146, comma 4, del Codice, dispone infatti, innovando rispetto al precedente regime normativo, che: “Fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”. L’art. 167, comma 4, delimita i ristrettissimi casi, di natura eccezionale, in cui la sanatoria paesaggistica ex post resta possibile. L’art. 182, comma 3-bis, contiene la disciplina transitoria, stabilendo il termine finale, ormai ampiamente scaduto, entro il quale l’amministrazione è tenuta a dar corso alle domande di sanatoria, anche laddove dichiarate improcedibili a causa del sopravvenuto (rispetto alla realizzazione dell’opera) divieto di sanatoria ex post.
Il Giudice amministrativo ha peraltro rimarcato, anche di recente, che le istanze di sanatoria presentate tardivamente, anche per opere realizzate prima del divieto introdotto dal Codice, non sono meritevoli di affidamento, in quanto tale affidamento “potrebbe porsi in realtà soltanto per coloro che non per loro colpa abbiano visto esaminare in ritardo la loro posizione amministrativa” (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 5245 del 2018).
La Regione siciliana non solo non ha attuato, all’interno della Regione, il nuovo principio di divieto di sanatoria ex post stabilito dal Codice, ma interviene addirittura in senso contrario al principio stesso, aumentando le ipotesi in cui consentire il giudizio di compatibilità paesaggistica “ora per allora” a tutte le aree c.d. Galasso, in contrasto anche con i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti con uniformità nel territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m).
La Corte ha già censurato una norma della Regione Valle d’Aosta che, pur dotata di autonomia speciale in materia di paesaggio, interveniva sul procedimento eccezionale di sanatoria di cui all’art. 167, comma 4 del Codice, in quanto essa “ponendosi in contrasto con il consolidato indirizzo seguito dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «l’autorizzazione paesaggistica […], deve essere annoverata «tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 101 del 2010 e n. 232 del 2008) risulta costituzionalmente illegittima là dove prevede che la Commissione regionale per il paesaggio e non la sola soprintendenza possa esprimere parere “vincolante” in merito alle istanze relative a provvedimenti riguardanti l’applicazione di sanzioni demolitorie per abusi edilizi e per la conversione delle demolizioni in indennità o sanzioni pecuniarie” (Corte cost. sentenza n. 238 del 2013). La norma era perciò ritenuta illegittima, “in quanto - discostandosi da quanto previsto da norme del decreto legislativo n. 42 del 2004 in tema di tutela paesaggistica, qualificabili come ««norme di grande riforma economico-sociale» - non rispettano i limiti posti dallo Statuto speciale all’esercizio della competenza legislativa primaria della Regione autonoma”.
La normativa regionale, comportando un abbassamento di tutela e in assoluta violazione della logica “incrementale” della tutela avvalorata dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 141 del 2021), si pone in contrasto con l’art. 9 della Costituzione.
Inoltre, incidendo nell’applicazione delle sanzioni penali di cui all’art. 181 del Codice dei bei culturali e del paesaggio, invade la competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. L), Cost. Ancora, riaprendo sostanzialmente i termini della sanatoria dopo quarant’anni, appare anche irragionevole e sproporzionata, e quindi in contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost.
La Corte ha infatti più volte dichiarato che l’operatività retroattiva delle disposizioni, sia nazionali che regionali, “deve, tuttavia, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata” (sentenza n. 170 del 2013, richiamata da Corte cost. n. 73 del 2017).
Conclusivamente, il nuovo comma 3 dell’art. 25 della legge regionale n. 16 del 2016, introdotto dall’art. 20, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 23 del 2021, è costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale; dell’art. 117 secondo comma, lett. S) Cost., per violazione delle norme di grande riforma economico sociale di cui agli articoli 142, 146, 167, 181 e 182 del Codice; dell’art. 117, secondo comma, lettera l) e m) Cost. e degli articoli 9, 3 e 97 Cost.

5. L’art. 22 modifica il comma 3 dell’art. 28 della legge regionale n. 16 del 2016. Per effetto della novella, il comma 3 è così riformulato: “Trascorso il termine di 90 giorni dalla data di deposito della perizia, senza che sia stato emesso provvedimento con il quale viene assentito o negato il condono, la perizia acquista efficacia di titolo abilitativo. Le perizie giurate possono essere precedute da comunicazioni asseverate (CILA tardive) e segnalazioni certificate di inizio attività (SCIA in sanatoria) per la regolarizzazione di opere minori realizzate all’interno degli immobili oggetto di condono edilizio non definiti, utili per la definizione del condono”.
La perizia, cui fa riferimento il comma 3, è prevista dal comma 1, ai sensi del quale “I titolari degli immobili, che hanno presentato istanza di condono edilizio, possono depositare dalla data di entrata in vigore della presente legge una perizia giurata di un tecnico abilitato all’esercizio della professione, iscritto in un albo professionale, attestante il pagamento delle somme versate per l’oblazione e per gli oneri di urbanizzazione nonché il rispetto di tutti i requisiti necessari per ottenere la concessione in sanatoria, oltre la copia dell’istanza di condono presentata nei termini previsti dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47, dalla legge 23 dicembre 1994, n. 724 e dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Gli interessati, inoltre, per il periodo 2008-2013, allegano, ove previste, le ricevute di versamento delle imposte comunali sugli immobili e quelle per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani”.
5.1. La disposizione regionale interviene nella materia del condono edilizio al fine di estenderne la portata applicativa, prevedendo in primo luogo, che la perizia depositata al fine di attestare il possesso dei requisiti stabiliti dal legislatore regionale per usufruire del condono, in caso di silenzio-assenso protratto per 90 giorni valga come condono stesso. Viene introdotto, perciò, una sorta di silenzio-assenso in materia di condono, sia pure mediato dal deposito di una perizia tecnica di parte, che si discosta notevolmente dalla fattispecie prevista dal legislatore statale, prevedendo, anziché un biennio, un termine molto più breve per la formazione del titolo e includendo nell’ambito applicativo della fattispecie anche gli immobili vincolati. Ciò in totale spregio dei capisaldi posti dal legislatore statale in tema di condono, come di seguito richiamati:
(i) “Per consolidata giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, 8 novembre 2011, n. 5894 e 3 novembre 2010, n. 7770; Sez. IV, 16 febbraio 2011, n. 1005 e 30 giugno 2010, n. 4174) il silenzio assenso non si perfeziona per il solo fatto dell’inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria e del pagamento dell’oblazione, se non sopravviene la verifica del Comune circa la ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalle specifiche disposizioni di settore, da verificarsi all’interno del relativo procedimento. La formazione del silenzio - assenso richiede, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente dimostrati gli ulteriori requisiti sostanziali, che nella specie non ricorrono” (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1675);
(ii) il biennio assegnato al Comune per provvedere (trascorso il quale si forma il silenzio-assenso) decorre dalla presentazione di un’istanza debitamente documentata (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28 novembre 2013, n. 5703; Consiglio di Stato sez. IV, 30.6.2010 n. 4174; 23.7.2009 n. 4671; sez. V, 21.9.2005 n. 4946; sez. II, 13.6.2007 n. 1797/2007);
(iii) la formazione del condono per silenzio-assenso è pacificamente esclusa con riferimento agli abusi su immobili vincolati (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4749).
L’effetto concreto della previsione introdotta dalla Regione Siciliana è che le pratiche di condono ad oggi ancora incomplete (e sulle quali non ha quindi preso a decorrere il termine di due anni per la formazione del silenzio-assenso) vengano completate (o asseritamente completate), presentando contestualmente la perizia giurata prevista dalla legge regionale. Da quel momento inizierà a decorrere il termine di soli novanta giorni (e non di due anni) per la verifica da parte del Comune. Inoltre, il titolo in sanatoria si formerà anche laddove la perizia risulti errata e la pratica sia in realtà ancora incompleta. Infine, il titolo si formerà persino in presenza di immobili vincolati.
Si evidenzia, inoltre, che il legislatore statale, recentemente, è intervenuto in materia di silenzio-assenso, introducendo il nuovo comma 2-bis nell’art. 20 della legge n. 241 del 1990, mediante il decreto-legge n. 77 del 2021, prevedendo il rilascio, su richiesta dell’interessato, da parte dell’amministrazione, di un’attestazione sul decorso dei termini del procedimento e sull’accoglimento tacito della domanda. La previsione regionale, perciò, si rivela non necessaria al fine di dare certezza al privato e contrasta anche con il principio introdotto dalla disposizione ora richiamata, e quindi con i livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lett. M).
5.2. In secondo luogo, prefigura una nuova ipotesi di “condono minore”, nelle more del condono principale, tramite CILA o SCIA postume, sconosciuta all’ordinamento. Eventuali interventi abusivi, ancorché minori, su un immobile già a sua volta abusivo, sebbene nelle more della procedura di condono, costituiscono a loro volta illeciti edilizi, che accedono all’illegittimità dell’opera principale, e non possono certamente essere sanati mediante la procedura peculiare prefigurata dal legislatore regionale quando ancora non è sanato l’immobile principale.
Pertanto, la norma regionale contrasta con i principi in tema di condono ripetutamente ribaditi dalla Corte costituzionale, nonché affermati dal Giudice penale. Ne deriva che la disciplina censurata si pone in contrasto con i limiti alla potestà legislativa regionale sanciti dall’art. 14 dello Statuto speciale e invade la sfera di competenza statale.
Infatti, la Corte ha più volte affermato che “esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009) oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del 2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale (sentenza n. 233 del 2015)” (cfr. Corte n. 73 del 2017 cit.).
Occorre peraltro evidenziare che l’intera disciplina del condono riveste carattere eccezionale ed è connotata dal carattere di grande riforma economico sociale.
La norma regionale ha una evidente ricaduta anche sul piano dell’ordinamento penale, parimenti riservato alla potestà legislativa statale, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. L), Cost. e dell’art. 14 dello Statuto speciale.
Sono inoltre violati i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art 117, secondo comma, lett. M).
Come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 196 del 2004, quanto alle Regioni ad autonomia speciale, opera infatti il limite della “materia penale” (comprensivo delle connesse fasi procedimentali) e quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma”, quali il titolo abilitativo edilizio in sanatoria e la determinazione massima dei fenomeni condonabili (nello stesso senso le sentenze n. 70 e n. 71 del 2005; cfr. anche le sentenze n. 54 del 2009 e 290 del 2009).
La norma è anche manifestamente irragionevole, in quanto consente “condoni intermedi” nelle more del perfezionamento del condono principale, che potrebbe anche essere negato.
Conclusivamente, l’art. 22 è censurabile per violazione dell’art. 14 dello Statuto siciliano, dell’art. 3, 9 e 97 Cost., dell’art. 117 secondo comma, lettere l), m), ed s), di cui costituiscono parametri interposti gli articoli 167 e 181 del Codice, nonché le norme di grande riforma economico-sociale recate dalla normativa statale sul condono (artt. 31 ss. Della l. n. 47 del 1985, art. 39 della l. n. 724 del 1994, art. 32 del d.l. n. 269 del 2003) e il comma 2-bis dell’art. 20 della legge n. 241 del 1990.
37 apporta modifiche alla legge regionale n. 6 del 2010, c.d. piano casa siciliano. In particolare, le novelle di cui alle lettere a) e d) hanno l’effetto dirompente di capovolgere il principio statale, posto alla base del c.d. piano casa, in base al quale gli abusi edilizi, benché oggetto di sanatoria, non sono mai computabili ai fini di ottenere premialità edilizie su quei volumi, pur sempre frutto di attività illecita e, inoltre, spesso incoerenti rispetto alla destinazione urbanistica dell’area nella quale si collocano (ragione per la quale le opere erano state originariamente realizzate senza titolo).
6. L’art. 37 apporta modifiche alla legge regionale n. 6 del 2010, c.d. piano casa siciliano.
In particolare, il comma 1, lettera a), sostituisce il comma 4 dell’art. 2, allo scopo di estendere l’operatività del c.d. piano casa anche agli edifici “condonati”, precedentemente esclusi e, parallelamente, la lettera d) sopprime il limite di applicazione agli “immobili oggetto di condono edilizio”. La lettera c), inoltre, modifica l’art. 6 della legge sul piano casa, sopprimendo il limite di 48 mesi per la presentazione delle istanze (punto 1) nonché la previsione in basa alla quale i Comuni potevano motivatamente escludere o limitare l’applicabilità del piano casa (punto 2).
6.1. In particolare, le novelle di cui alle lettere a) e d) hanno l’effetto dirompente di capovolgere il principio statale, posto alla base del c.d. piano casa, in base al quale gli abusi edilizi, benché oggetto di sanatoria, non sono mai computabili ai fini di ottenere premialità edilizie su quei volumi, pur sempre frutto di attività illecita e, inoltre, spesso incoerenti rispetto alla destinazione urbanistica dell’area nella quale si collocano (ragione per la quale le opere erano state originariamente realizzate senza titolo). Ciò risulta espressamente nell’Intesa del 2009 sul c.d. piano casa, nella quale si prevede che “Tali interventi edilizi non possono riferirsi ad edifici abusivi o nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta”.
La disposizione regionale ha anche come effetto l’evidente incremento dell’edificazione anche in aree vincolate paesaggisticamente, per le quali, a far data dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, è stato stabilito il principio c.d. del “divieto di sanatoria ex post” (salvi i limitatissimi casi previsti dall’art. 167, comma 4, del Codice).
Le novelle, concedendo la possibilità di realizzare gli interventi del c.d. primo piano casa anche in relazione a immobili condonati, violano lo specifico divieto contenuto nell’Intesa del 2009 e pervengono così anche a esiti contrari ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.
6.2. La novella di cui alla lettera c), punto 1, modifica il comma 2 dell’art. 6 della legge sul piano casa, sopprimendo il termine di 48 mesi dal termine fissato al comma 4 (pari a 120 giorni dall’entrata in vigore della legge) al quale erano subordinate le istanze di interventi edilizi di ampliamento degli edifici esistenti nonché di interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente.
Anche in questo caso, la novella ha un effetto dirompente: infatti, non solo la stessa converte le istanze “tardive”, eventualmente già presentate, in istanze “tempestive”, ma riapre sine die i termini del piano casa siciliano consentendo la presentazione di nuove domande senza alcun limite temporale.
Al riguardo, occorre sottolineare che la finalità normativa della normativa sul c.d. piano casa era originariamente quella di consentire interventi “straordinari”, per un periodo temporalmente limitato, su edifici abitativi. Dato, questo, puntualmente evidenziato dalla Corte costituzionale, la quale non ha mancato di rilevare come il c.d. piano casa fosse una “misura straordinaria di rilancio del mercato edilizio predisposta nel 2008 dal legislatore statale, contenuta nell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133” (Corte cost. n. 70 del 2020; cfr. anche Corte cost. n. 217 del 2020).
Questa originaria finalità appare essere stata snaturata dalla Regione con la novella in esame, che consentirebbe di determinare la sostanziale stabilizzazione delle deroghe consentite dalla legge regionale del 2009 (attuativa dell’intesa in Conferenza unificata).
Si deve evidenziare che l’Intesa del 2009 sul c.d. piano casa prevedeva espressamente che:
“Le Regioni si impegnano ad approvare entro e non oltre 90 giorni proprie leggi ispirate preferibilmente ai seguenti obiettivi:
a) regolamentare interventi — che possono realizzarsi attraverso piani/programmi definiti tra Regioni e Comuni — al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica degli edifici entro il limite del 20% della volumetria esistente di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi, per un incremento complessivo massimo di 200 metri cubi, fatte salve diverse determinazioni regionali che possono promuovere ulteriori forme di incentivazione volumetrica;
b) disciplinare interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35% della volumetria esistente, con finalità di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e secondo criteri di sostenibilità ambientale, ferma restando l’autonomia legislativa regionale in riferimento ad altre tipologie di intervento;
c) introdurre forme semplificate e celeri per l’attuazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale.
Tali interventi edilizi non possono riferirsi ad edifici abusivi o nei centri storici o in aree di inedificabilità assoluta.
Le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettere a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico, nonché gli ambiti nei quali i medesimi interventi sono favoriti con opportune incentivazioni e premialità finalizzate alla riqualificazione di aree urbane degradate.
La disciplina introdotta dalle suddette leggi regionali avrà validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi dalla loro entrata in vigore, salvo diverse determinazioni delle singole Regioni”.
Pertanto, appare evidente che in sede di Intesa sono stati previsti precisi limiti per gli interventi realizzabili “in deroga”, sia volumetrici, sia temporali, che benché non siano configurabili come indicazioni tassative, assumono comunque valore di regole di riferimento, rispetto alle quali lo ius variandi della Regione è contenuto e deve attenersi alla ratio delle previsioni concordate. Da ciò consegue che necessariamente – poiché una diversa interpretazione porterebbe a vanificare completamente l’efficacia della predetta Intesa – le determinazioni regionali, in senso ampliativo rispetto ai limiti previsti nell’Intesa, sono ammissibili solo se rispondono a canoni di proporzionalità e ragionevolezza. In particolare, la espressa previsione di un termine, peraltro di soli 18 mesi, non consente di ipotizzare, legittimamente, una “messa a regime”, da parte delle Regioni, di una normativa eccezionale e derogatoria alla pianificazione urbanistica, né tanto meno l’ampliamento progressivo della portata di tale normativa.
Al riguardo, va evidenziato che il Giudice amministrativo ha sempre rimarcato il carattere temporaneo del c.d. piano casa, il quale, riflettendo l’esigenza di promuovere gli investimenti privati nel settore dell’edilizia, “è una disciplina che possiede natura eccezionale in merito a specifici interventi. In particolare, la normativa de qua è destinata ad operare per un arco temporalmente limitato” (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 10 giugno 2020, n. 2304).
Non è quindi consentito alle Regioni – al di fuori della normativa straordinaria e temporanea del c.d. piano casa, avente copertura a livello statale – introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica. Tale lettura si impone, nell’ambito di un’interpretazione costituzionalmente orientata, perché – in forza della norma di interpretazione autentica di cui all’articolo 1, comma 271, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 – le agevolazioni incentivanti ivi previste “prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi, fermi i limiti di cui all’articolo 5, comma 11, secondo periodo, del citato decreto-legge n. 20 del 2011”. La deroga della pianificazione urbanistica deve, infatti, considerarsi ammissibile per un tempo necessariamente limitato e non è ipotizzabile a regime, pena la destrutturazione dell’ordinato assetto del territorio, con conseguenze irragionevoli e contrarie al principio del buon andamento. Anche recentemente il Giudice amministrativo ha rimarcato che l’art. 5 del decreto-legge c.d. “Sviluppo” “è disposizione di carattere eccezionale e derogatoria e pertanto di stretta interpretazione” e che “i benefici da esso previsti sono ammessi solo se rivolti alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o a promuovere o agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate” (Cons. Stato, Sez. IV, 19 aprile 2017, n. 1828).
Invece, secondo le previsioni regionali: “Gli interventi sono ammessi in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, purché nel rispetto delle distanze minime stabilite da norme legislative vigenti ed in conformità alla normativa antisismica” (cfr. articoli 2, comma 3, e 3, comma 4) e ciò, a seguito della novella de qua, al di fuori di qualsivoglia limite temprale, stante la riapertura dei termini per la presentazione delle relative istanze. Contrariamente ai principi sopra richiamati e messi in luce dalla Corte costituzionale, non tutti gli standard urbanistici sono perciò fatti salvi dalla Regione.
Il risultato delle novelle apportato dalla Regione Siciliana, rivolto a consentire la riapertura dei termini per presentare le istanze del c.d. piano casa, è quello di accrescere enormemente, per sommatoria, il numero degli interventi consentiti ex lege, al di fuori di qualsivoglia valutazione del singolo contesto territoriale, scardinando così il principio fondamentale in materia di governo del territorio secondo il quale gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sono consentiti soltanto nel quadro della pianificazione urbanistica.
La sostanziale stabilizzazione delle normative eccezionali del c.d. piano casa contrasta anche con il principio fondamentale, costituente norma di grande riforma economico-sociale, di temporaneità del relativo regime.
La novella risulta perciò anche manifestamente arbitraria e irragionevole, nonché contraria al principio del buon andamento dell’amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione) in quanto, ponendo nel nulla le previsioni degli strumenti urbanistici, comporta che le trasformazioni sul territorio non siano previste sulla base di una valutazione riferita ai singoli contesti, bensì in base a un disegno generale e astratto operato una volta per tutte dalla legge.
In questo modo, viene violato l’obbligo costituzionale di disciplinare in modo diversificato situazioni tra loro non assimilabili, quali tipicamente sono i contesti territoriali, che per loro natura richiedono valutazioni specifiche e differenziate.
6.3. Il numero 2) della lettera c) del comma 1 dell’art. 37 abroga il comma 4 dell’art. 6 della legge n. 6 del 2010, che prevedeva: “I comuni, con delibera consiliare, entro il termine perentorio di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, possono motivatamente escludere o limitare l’applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 ad immobili o zone del proprio territorio o imporre limitazioni e modalità applicative, sulla base di specifiche ragioni di carattere urbanistico, paesaggistico e ambientale”.
L’abrogazione della disposizione richiamata elimina la possibilità, per i comuni, di limitare gli effetti del piano casa sul proprio territorio, sulla base di motivazioni di carattere urbanistico, paesaggistico e ambientale. È, perciò, violata anche l’autonomia dei comuni, per le medesime ragioni già espresse al § 1.6.2., al quale si rinvia.
L’intervenuta abrogazione appare irragionevole e sproporzionata, in quanto tale previsione costituiva un punto di caduta necessario tra le opposte esigenze della riqualificazione abitativa e del principio di ordinato sviluppo del territorio di piena pertinenza dell’autorità comunale.
L’irragionevolezza è amplificata dalla contemporanea riapertura sine die dei termini per le relative istanze.
Sotto questo profilo la normativa regionale si pone in contrasto con gli articoli 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. P), e sesto comma, e 118 Cost., nonché dei limiti alla potestà legislativa regionale di cui all’articolo 14 dello Statuto di autonomia
6.4. Benché il piano casa siciliano non si applichi, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 6 del 2010, agli immobili tutelati ai sensi della Parte II del Codice, ai centri storici, le disposizioni richiamate si pongono in contrasto con l’obbligo di pianificare tutto il territorio regionale discendente dalla Convenzione europea del paesaggio recepita mediante la legge n. 14 del 2006, e concretamente attuata mediante le previsioni dell’art. 135 Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Conclusivamente, l’art. 37 è censurabile ed in particolare:
(i) le lettere a) e d) per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale, nonché degli articoli 3, 9 e 97, 117, primo comma – alla luce della legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio – 117, secondo comma lett. S), della Costituzione, di cui costituiscono norme interposte gli articoli 135, 146 e 167 del Codice, e per violazione delle norme di grande riforma economico sociale costituite dai principi di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008, all’Intesa sul piano casa del 2009;
(ii) la lettera c) punto 1) per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale, nonché degli articoli 3, 9 e 97, 117, primo comma – alla luce della legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio – 117, secondo comma lett. S), della Costituzione, di cui costituisce norma interposta l’articolo 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e per violazione delle norme di grande riforma economico sociale costituite dai principi di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008, all’Intesa sul piano casa del 2009;
(iii) la lettera c), punto 2) per violazione dell’art. 14 dello Statuto speciale, nonché degli articoli 3, 5, 9, 97, 114, secondo comma, 117, primo comma – alla luce della legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea sul paesaggio – 117, secondo comma lett. P), l’art. 117, secondo comma, lett. S), di cui costituisce norma interposta l’articolo 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’art. 117, sesto comma e 118 della Costituzione, per violazione delle norme di grande riforma economico sociale costituite dai principi di cui all’articolo 41-quinquies, ottavo e nono comma, della legge n. 1150 del 1942, all’articolo 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 112 del 2008, all’Intesa sul piano casa del 2009.
7. L’art. 38 reca: “Al fine di contrastare l’emergenza Covid-19 per un periodo di due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il limite di mq. 50 di cui all’articolo 20 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4 e successive modificazioni non si applica per la chiusura di spazi interni ove questi costituiscano pertinenze di unità immobiliari in cui sono legittimamente insediate attività di ristorazione”. La norma regionale disapplica il limite di mq 50 previsto dall’art. 20 della legge regionale n. 4 del 2003, il cui comma 1 prevede: “In deroga ad ogni altra disposizione di legge, non sono soggetti a concessioni e/o autorizzazioni né sono considerati aumento di superficie utile o di volume né modifica della sagoma della costruzione la chiusura di terrazze di collegamento oppure di terrazze non superiori a metri quadrati 50 e/o la copertura di spazi interni con strutture precarie, ferma restando l’acquisizione preventiva del nulla-osta da parte della Soprintendenza dei beni culturali ed ambientali nel caso di immobili soggetti a vincolo”.
La norma è, inoltre, estesa alla chiusura di verande o balconi con strutture precarie (cfr. comma 3). Si precisa inoltre che sono da considerare strutture precarie tutte quelle realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione (cfr. comma 4).
La norma, atteso che la finalità è dichiaratamente connessa all’emergenza pandemica, appare manifestamente arbitraria e irragionevole, posto che prevede un termine di applicazione pari a due anni, nonostante il termine finale dell’emergenza sia fissato al 31 dicembre 2021; d’altro canto, gli effetti della norma non sono parametrati all’emergenza pandemica, essendo destinati a protrarsi molto più a lungo, non essendo previsto un termine oltre al quale procedere alla rimozione delle opere.
Peraltro, pur trattandosi di opere precarie, le medesime ricadono sul principio di ordinato sviluppo del territorio, derogandovi, posto che il TUE non distingue gli interventi sulla base di un criterio strutturale (la più o meno agevole rimozione), ma funzionale (la destinazione a esigenze temporanee o permanenti), ed essendo tali opere comunque finalizzate alla formazione di spazi chiusi destinati alla permanenza di persone, che lo stesso TUE annovera tra gli interventi di nuova costruzione. Appare costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 14 dello Statuto di autonomia, degli articoli 3 e 97 Cost, nonché della norma di grande riforma economico sociale di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942.
Per tali motivi, la disposizione appare costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 14 dello Statuto di autonomia, degli articoli 3 e 97 Cost, nonché della norma di grande riforma economico sociale di cui all’art. 41-quinquies della legge 1150 del 1942.
Per i motivi sopra illustrati, limitatamente alle disposizioni contenute negli articoli 4, commi 1, 2 e 7; 6 lettera d) punti 1), 4), 5) e 6); 10; 20 comma 1, lettera b); 22; 37 lettere a), c) punto 1, punto 2 e d) e 38, la legge regionale deve essere impugnata ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione.

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